Governo da rifare?
Non solo procedure

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Oggi Renzi va al Quirinale e presenta le dimissioni, dopo averne discusso in Consiglio dei ministri.

Quest’ultimo passaggio non era strettamente necessario, perché basta la decisione del Presidente del Consiglio. Anzi, siccome Renzi si è accollato pubblicamente l’intera responsabilità della disfatta elettorale (cosa assai rara in Italia), nulla potrebbe essergli obiettato se la crisi la apre per le sue personali dimissioni. Però è un atto di correttezza nei confronti dei colleghi di Governo: e potrebbe essere anche qualcosa di più. Può servire per esempio per acquisire informazioni sui desiderata degli alleati di Governo, i quali potrebbero anche insistere con Renzi perché lui lasci una porta aperta al momento di presentare le dimissioni.

Anche Mattarella ha alcune scelte possibili, anzi molte di più. Può semplicemente accogliere le dimissioni, pregando Renzi di restare in carica per l’esercizio dell’ordinaria amministrazione, in attesa che venga nominato un nuovo Governo; oppure può invitare Renzi a presentarsi alle Camere per chiarire le ragioni delle sue dimissioni.

Nella prassi meno recente (non seguita nelle crisi dei Governi Berlusconi IV, Monti e Letta) lo si è fatto soprattutto quando le ragioni della crisi non erano chiarissime, ma è stato anche il modo per risolvere qualche altro problema. Sempre nella prassi le eventuali dichiarazioni del Presidente dimissionario in parlamento non sono mai seguite da un voto (le dimissioni sono sempre un atto personale del capo del governo), ma solo da un dibattito. D’Alema, per esempio, si dimise dopo la sconfitta elettorale alle regionali (aprile 2000), ma Ciampi respinse le dimissioni e lo mandò a riferire alle Camere. Dopo la discussione sulle sue comunicazioni, D’Alema riunì il Consiglio dei ministri e solo dopo formalizzò le dimissioni comunicando al Capo dello Stato quali indicazioni erano state date dal dibattito parlamentare. Così fu preparato il terreno per la formazione del Governo Amato II.

Se invece Mattarella accetta le dimissioni, dovrà iniziare la trafila delle consultazioni. Queste non sono regolate da una norma costituzionale, ma sono pura prassi. Spetta al Capo dello Stato nominare il nuovo Presidente del Consiglio “e, su sua proposta, i ministri” (così dispone l’art. 92 Cost.). L’obiettivo che vincola l’attività del Presidente è nominare un Governo che abbia la fiducia delle Camere, e quindi lo strumento delle consultazioni è il mezzo necessario per raggiungere questo fine.

Chi viene consultato? Non c’è una regola, appunto, ma la prassi dice che invitati alla consultazione sono le figure istituzionali di spicco nelle Camere: i loro presidenti e i presidenti dei gruppi parlamentari. Da loro ci si può attendere qualche indicazione in merito alle maggioranze che si possono formare nelle camere e sulle personalità che possono coagularle. Non sono invitati direttamente i segretari dei partiti, perché i partiti non sono istituzioni costituzionali ma, da un punto di vista giuridico, semplici associazioni private. Però i presidenti dei gruppi si portano a rimorchio il segretario del partito e comunque il Presidente può estendere le consultazioni come vuole, perché – appunto – non ci sono regole.

Quanto può durare la crisi è la grande domanda. Ma anche quando si aprirà formalmente la crisi non è una domanda da poco. La Camera dei deputati ha già approvato la legge di bilancio 2017 sulla quale il Governo ha posto la questione di fiducia, secondo una prassi tanto vecchia quanto mortificante per il ruolo del Parlamento, che si vede imporre una strozzatura del dibattito sull’atto fondamentale di politica economico-finanziaria. Ma non ci sono altre soluzioni se si vuole evitare che la discussione degli emendamenti duri all’infinito e non si riesca a chiudere la discussione in tempi utili per trasmettere il disegno di legge di bilancio al Senato e farlo approvare entro la fine dell’anno.

Ma qui sta il problema: ora che il bilancio 2017 è al Senato, quali strumenti ha il Governo per imporre tempi stretti di approvazione? Un Governo dimissionario ha interrotto il rapporto di fiducia che per Costituzione deve esserci con le Camere: e quindi non può più porre la questione di fiducia sulle sue proposte. Non ha perciò lo strumento per garantire i tempi di approvazione e neppure che il testo di legge non venga cambiato (nel qual caso dovrebbe ritornare alla Camera).

Una vicenda del genere era capitata al Governo Monti. Il 21 novembre 2012 la Camera aveva approvato la legge di bilancio con il voto di fiducia; il 6 dicembre il PDL ritirava il suo appoggio al Governo; l’8 dicembre Monti saliva al Quirinale per rassegnare le dimissioni ma il Presidente Napolitano annunciò che le dimissioni sarebbero state formalizzate solo dopo l’approvazione del bilancio in Senato. Il 20 dicembre il Senato approva il bilancio (il PDL accetta di votare la fiducia solo per far passare la legge), il 21 esso è riapprovato dalla Camera, sempre con voto di fiducia. Il giorno stesso Monti si dimette e il giorno dopo Napolitano scioglie le Camere.

Questa traccia sembra sensata e riproponibile per risolvere la situazione che si è aperta con l’annuncio di Renzi di dimettersi a seguito del voto sul referendum. In tal modo si dovrebbe avere la certezza che la legge di bilancio venga approvata entro l’anno e a quel punto forse anche il modo di risolvere la crisi sarà forse diventato un po’ più chiaro.

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