Un governo culturalmente incostituzionale?

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di Davide Galliani

1. I botti iniziali, riguardanti la formazione dell’esecutivo, hanno lasciato il passo alla rassegnazione? Forse sì. Vero che di leggi se ne sono viste poche, al contrario delle tante parole e di qualche rilevantissimo fatto. Vero che le caselle dei più importanti uffici ministeriali sono state riempite da poco. Eppure, se valutiamo parole e fatti, siamo già alle prese con un governo che dovrebbe catalizzare le attenzioni dei più. Quanto meno preoccupare i più. Non è solo una questione di linguaggio utilizzato. No, il problema è sostanziale, non solo come parlano, ma soprattutto cosa dicono. Chi se non i costituzionalisti dovrebbero essere i primi a preoccuparsi? Non è in gioco solo il diritto penale, quello internazionale, quello famigliare, quello tributario e via dicendo. No, il problema è di fondo, il problema è costituzionale. E’ il famoso tronco dell’albero che inizia a mostrare crepe preoccupanti. I rami, se il tronco vacilla, sono destinati a insecchirsi. Ma, appunto, il problema vero non sono i rami, ma il tronco, come le sue radici assorbono la linfa per sopravvivere.

2. Lasciamo Santi Romano e prendiamo qualche fatto. La chiusura dei porti, ad esempio.

È molto probabile che, mentre scrivo questo post, il nostro paese stia violando la legalità internazionale, che non è fatta solo di trattati, convenzioni, accordi, ma anche di giurisprudenze che da tempo quei testi interpretano. Ho provato quindi a capire di più. Mi sono ascoltato su radio radicale tutto l’intervento del Ministro degli Interni al raduno di Pontida di qualche giorno fa. Il raduno aveva questo titolo: “Il buonsenso al Governo”. Niente da fare, quella dei porti chiusi sarà la linea del governo, altrimenti non ci sarà più un governo. Chi avrà diritto di venire nel nostro paese arriverà in aereo, dice il Ministro, gli altri arrivederci (il gesto con la mano, di una ferocia atroce, indicava un’altra strada da percorrere…).

Un altro esempio. Sempre il Vice-Presidente del Consiglio ha sostenuto, in quel raduno, che il solo pensare alla maternità surrogata “mi fa schifo”. Ometto ogni commento. Sarebbe superfluo. Ma nessuno mi nega il forte abbraccio che darò, appena li vedrò, ai papà dei due gemellini che frequentano la scuola materna con mio figlio. Come ai migranti, anche a loro la mano del Ministro probabilmente indicherebbe un altro paese nel quale andare a vivere. Anche se sono italiani? Certo, perché il “prima gli italiani”, in realtà, significa “prima me stesso” o meglio “prima quello che a me non fa schifo”.

Anche alcuni passaggi sul penale sono incredibili: “nessuna pietà” per assassini e stupratori. È tanto che non sentivo un politico esprimersi in questo modo, peraltro un politico che ha finito il raduno con il crocefisso in mano. Ha fatto bene in fondo a dire quelle cose, così mi ha fatto tornare su questo mondo, che poi è il mondo della manina che indica una certa direzione. Il carcere, nell’ultimo caso, con l’aggiunta che non si capisce come si possano rieducare assassini e stupratori. Il penale sarà quasi sicuramente il campo di battaglia ove uno a uno cadranno, se non prontamente difesi (a proposito, concretamente, da chi, se non soprattutto dai giudici?), i principi dei Lumi, ma direi più che altro quelli costituzionali.

Faccio questa scommessa, anche se voglio perderla a tutti i costi: a quando un bel dibattito sulla necessità, per carità, a volte, di reintrodurre la pena capitale? È sempre la manina del Ministro che ci ricorda la strada che dovrebbero prendere gli stupratori e gli assassini. E chiedo al Ministro: ma se pensa che la rieducazione non possa riguardare tutti, cosa vuole fare di stupratori e assassini? Dai Ministro, facciamolo questo dibattito, voglio veramente capire cosa pensa della pena di morte. Ho una mezza idea di cosa pensano a proposito molti italiani, ai quali sarà facile appellarsi. Finalmente, a quel punto, si capirà il senso vero e profondo del costituzionalismo, che è quello di non poter fare tutto ciò che passa per la mente, nemmeno se invocato a grande voce dal cosiddetto popolo sovrano.

Almeno il fascismo, quando decise di reintrodurre la pena capitale, fece un giro di opinioni presso i giudici e le Università italiane. Lascio immaginare le risposte, ma almeno si chiese l’opinione dei giuristi. Oggi sembra di stare in un mondo irreale: prima almeno ci sputavano addosso, intendo nell’epopea berlusconiana, ora è come se non esistessimo. Diamo a Cesare quel che è di Cesare: se la sinistra una cosa buona l’ha fatta, è il metodo con il quale ha cercato di portare avanti le riforme, appunto un metodo che considerava il sapere universitario una ricchezza.

3. A proposito di ricchezze e saldezze costituzionali, mi ha fatto impressione anche il Ministro della Giustizia. Qui le parole, per ora, superano i fatti. Ma sono parole pesanti come pietre. Sono parole che denotano, anche in questo caso, una cultura incostituzionale.

Ad esempio, la questione della certezza della pena. Che bello sarebbe poter discutere serenamente con il Ministro della Giustizia. Intanto, gli ricorderei che la Costituzione è nata anche nelle carceri. Per davvero, non per scherzo. Un po’ di storia, senza quella il diritto è morto: lo sanno anche i bambini che i due Presidenti dell’Assemblea Costituente il carcere lo conoscevano bene. Il Ministro, sono certo, queste cose le conosce bene. E poi si potrebbe rispondere: nulla hanno a che fare con la certezza della pena.

4. Proviamo allora a scendere un poco più in profondità. Quando il Ministro parla di certezza della pena vuole dire questo: se ti prendi sette anni devi stare in carcere dal primo all’ultimo giorno. Sono 2.550 giorni: entri il primo, esci l’ultimo. Questa è la ministeriale certezza della pena. Ebbene, ditemi voi se esiste un ragionamento più incostituzionale di questo, se esiste un modo di pensare più contrario alla Costituzione di questo. Abbiamo davvero a che fare con una cultura incostituzionale, non trovo altro termine.

Il presupposto di questo ragionamento è davvero fuori della Costituzione, per la quale le chiavi di una cella non si buttano via per nessuno. Mi piacerebbe sapere dal Ministro cosa pensa se, al posto di sette anni, una persona prende l’ergastolo. Mi sbilancio e presumo che, anche in questo caso, la certezza della pena debba significare che quella persona uscirà dal carcere con i piedi in avanti e non per terra. Mettiamo che il reato sia compiuto a venti anni. Prendiamo come aspettativa media di vita ottanta anni. Come la metterebbe il Ministro con la certezza della pena? La persona dovrebbe scontare in carcere una cosa come 21.900 giorni, uscendone solo il giorno della propria morte, proprio con i piedi in avanti e non per terra? Ma lasciamo stare i presupposti dei ragionamenti: quelle sono cose che interessano solo a noi studiosi. Del resto, l’inumano slogan del buttare via le chiavi non è certo un conio del solo Ministro in carica. Chiedere a sinistra per avere qualche conferma.

Scansata la riflessione sui presupposti, il costituzionalista non può però rassegnarsi, altrimenti ha sbagliato mestiere. Anche se i presupposti non coincidono, dobbiamo andare avanti a fare il nostro mestiere. Torniamo quindi alla certezza di quei 2.550 giorni da scontare dal primo all’ultimo in carcere. Se il carcere è rieducazione (diciamolo, che è meglio: il “tendere” significa che non la puoi imporre), la persona che vi fa ingresso tutti vorremmo che tornasse libera diciamo così migliore di prima. Migliore non è un bel termine, ma il significato è chiaro: significa avendo compreso gli errori. E quindi: il Ministro pensa che passare 2.550 giorni dentro un carcere, magari in regime di celle chiuse e non aperte (qui però si deve ancora esprimere…), possa per magia restituirci una persona migliore?

Ecco però che arriva la parola magica, usata quando le persone parlano di carcere senza aver mai visto un carcere: il lavoro. La tesi è anche affascinante: stai in carcere, lavori, ti rendi utile alla collettività, quando arriva il tuo turno torni libero. A mio avviso è un misto di cultura che richiama i campi di prigionia degli schiavi e i campi di lavoro nazisti. Non so perché, ma nella mia mente scorrono le immagini in bianco e nero dei detenuti che, con la divisa bianca e nera a righe, spaccavano le pietre nel Sud Africa dell’Apartheid o che zappavano i campi nel democratico sud degli Stati Uniti. Devo però tornare razionale e ricordarmi che quelle immagini esistono anche a colori, sono immagini anche dei nostri tempi

5. Il lavoro in carcere, caro Ministro, è importante, nessuno lo nega. Ma in uno Stato come il nostro, che ha una Costituzione come la nostra, nessuno può imporre a nessuno di lavorare, altrimenti si chiamerebbe schiavitù, non più galera. Non sono dei birilli, i detenuti. Non sono degli oggetti che si possono disporre a piacimento per produrre questa cosa piuttosto che quest’altra. Se lo ricordi, caro Ministro: in carcere entrano uomini e donne, non oggetti e cose. Uomini e donne che, se riescono a superare il trauma iniziale (da dieci anni abbiamo un suicidio in carcere ogni settimana), non vedono l’ora di fare qualcosa di diverso rispetto al puro ozio, ma pur sempre uomini e donne che in nulla differiscono da noi, se non per il fatto che la loro libertà personale è (momentaneamente) ristretta. Ho visto persone in carcere che reclamavano il lavoro, non vi è dubbio. Erano stanche di stare a fare niente da mesi e anni. Pensate un po’, volevano davvero rendersi utili. Ma ho anche visto persone che si lamentavano di essere trattati come dei burattini, che facevano lavori ripetitivi, monotoni, consequenziali. Lavori da bambini, non da adulti. So cosa risponderebbe, il Ministro: ma anche fuori esistono lavori di questo genere, cosa vogliono un lavoro tagliato su misura? Ecco, finalmente una cosa sensata! Sono le eguali condizioni di partenza quelle che servono davvero in carcere, l’idea di essere trattati come ogni altra persona, nulla contando lo sbaglio che si è commesso, perché per quello si sta già pagando con la restrizione della libertà. Noi “buonisti” diciamo spesso che in carcere non entra il reato ma la persona. E se si condivide questo, allora deve valere l’eguaglianza sostanziale: cosa sai fare, cosa ti piacerebbe imparare, in quali attività sei più portato? Magari è questo esattamente che il Ministro pensa: staremo a vedere, se sarà così avrà il mio plauso.

6. Ma, aggiungo: sapete per caso quanti problemi esistono oggi in carcere per poter leggere un libro, comprare un testo obbligatorio per un esame universitario, entrare in possesso delle slides che noi carichiamo sui nostri siti internet, ascoltare le lezioni che mettiamo on line? Non dovremmo fare affogare le nostre patrie galere in una marea di libri? Quando un detenuto legge un libro è come se non fosse più detenuto, è come se stesse pregustandosi il ritorno in libertà. In una parola, è come se si stesse rieducando ogni pagina che scorre. Conosco persone detenute che in una settimana sono capaci di leggere non centinaia, ma migliaia di pagine. Ma anche qui, in effetti, esiste un limite: leggere è importante, come lavorare, ma nessuno può obbligarti a farlo.

E così torno finalmente ai nostri 2.550 giorni. Non posso obbligarti a lavorare e nemmeno posso obbligarti a leggere. Tuttavia, se esiste una cosa che ti devo offrire e che sono praticamente certo che tu accetterai è la luce genuina del sole che ti illumina il viso, gli spazi ampi e aperti che si dischiudono sotto un cielo azzurro, il vento leggero che durante l’estate porta conforto. Quello che bisogna fare è rendere il più possibile simile la detenzione alla vita che trascorrevi prima. Gli sguardi e i gesti di tua moglie, di tua figlia, della tua convivente: queste sono davvero le cose che per un detenuto fanno la differenza, semplicemente perché hanno il potere di far capire cosa si è lasciato. In carcere, le briciole di pane contano come i diamanti. Lo ripeto, perché è la verità: un po’ di luce del sole, un soffio di aria, un orizzonte visivo più lungo di tre metri, la sicurezza che prima di tutto chi ti vuole bene è pronto a riaccoglierti.

7. Come sempre, arriva la domanda: perché non le può vedere in carcere queste persone così importanti? Si capisce bene, ancora una volta, che chi pone questa domanda in carcere davvero non vi è mai stato. Non ha mai visto cosa sono le fila delle persone che attendono per fare i colloqui. Avete presente una moglie, che di solito è abbastanza giovane, in fila con tante altre che aspettano l’apertura di un cancello, di una porta, anzi di decine di cancelli e decine di porte? Sempre scortate, riescono finalmente ad arrivare nella sala colloqui. Una processione che lascia senza parole. Avete presente le bambine e i bambini che popolano queste file? È una umanità impressionante. Penso che una delle cose più devastanti che abbia mai visto è il volto di questi bambini che stanno in fila per andare dentro ad abbracciare il papà. La galera la fanno anche loro, altro che colloqui in carcere! Poi non nego che esistano delle oasi felici, come ad esempio quando grazie a skype il padre riesce a parlare con la maestra della figlia per sapere come va a scuola. Ma sono oasi, in un deserto senza senso e senza umanità.

Voglio usare il cuore più che la testa, anche perché tutti sappiamo benissimo che, nei paesi dove la pena si sconta meno in carcere e più fuori dal carcere, il tasso di recidiva è bassissimo, mentre, al contrario, è altissimo proprio laddove si parla di certezza della pena, di 2.550 giorni dal primo all’ultimo in carcere. Avessimo salette colloqui decenti, non pure quelle sovraffollate. Avessimo spazi riservati e chiusi, lontani dagli occhi altrui, come esistono in molti paesi civili. Niente, non abbiamo niente di tutto questo. E quando il politico di turno salta fuori dicendo che bisogna costruire nuove e più moderne carceri, ecco allora è arrivato il momento di organizzare la resistenza costituzionale, la difesa della cultura costituzionale. Lo ha scritto l’ex Procuratore Nazionale Antimafia in un suo libro recente: per combattere terrorismo e criminalità organizzata serve il carcere, ma servono anche le palestre. Serve, in altri termini, ricostruire il tessuto sociale, grazie ad una presenza massiccia e imponente dello Stato, del suo welfare, delle sue scuole, delle sue palestre.

8. A proposito. Sempre il Ministro della Giustizia, a dire il vero prima di diventare Ministro, ha sostenuto che il carcere non può diventare definitivamente l’extrema ratio. Anche per questo si era già espresso sul Blog dei Cinque Stelle per affossare la riforma dell’ordinamento penitenziario, che certo il Governo precedente ha fatto di tutto per non approvare, mostrando zero coraggio politico e anche poca dimestichezza con il funzionamento della delega legislativa. Lo riscrivo perché potrebbe sembrare un mio refuso: il Ministro ha davvero sostenuto che il carcere non può definitivamente diventare l’extrema ratio. Torna la domanda iniziale: cosa fare, rassegnarci o continuare a lottare per un mondo migliore? La cosa stupefacente è che, nella riforma penitenziaria oramai defunta, vi erano alcune disposizioni che si limitavano a recepire alcune recenti pronunce della Corte costituzionale. Ecco, la Corte costituzionale. A proposito, che bella idea l’iniziativa di andare nelle carceri italiane. Dopo le scuole, i giudici costituzionali porteranno la Costituzione nelle patrie galere. Piero Calamandrei sarebbe entusiasta, così come Sandro Margara, ma prima ancora Giuseppe Saragat e Umberto Terracini. Ma direi che ogni costituzionalista dovrebbe gioire.

9. Concludo. Ho discusso, di getto e in modo confuso (e me ne scuso), di alcune iniziative del Ministro degli Interni e di quello della Giustizia. Con una battuta, tiro le fila in questo modo: la vedo nera, molto nera. All’orizzonte intravedo un gigantesco scontro tra la politica e i giudici. Non i giudici rossi, ma i giudici che vanno contro il popolo! Giudici di casa nostra, ma anche giudici con la residenza a Strasburgo. Un secondo dopo una recente pronuncia della Corte europea dei diritti umani, che qualcosina ha detto sull’italianissima confisca automatica senza condanna, il Vice-Presidente del Consiglio, quello di cui sopra, il Ministro degli Interni per intenderci, ha sostenuto che si tratta dell’ennesima prova che certe istituzioni vanno chiuse. Non ha detto, il Ministro, parliamone e capiamo. No, ha detto altro: come i porti, anche Strasburgo va chiusa. Attenzione, però: se alcuni in fondo in fondo concordano, allora siamo veramente al game over.

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