«Interrogasse me, non andasse a chiedere lumi a dei funzionari, che svolgono delle direttive che il responsabile dà, cioè io. […] Se questo magistrato vuole capire qualcosa deve evitare i passaggi intermedi. Visto che c’è questo presunto sequestratore, che per qualcuno sarei io, sono disponibile a farmi interrogare domani mattina», ha dichiarato due giorni fa il Ministro Salvini in un’intervista a Rai Radio 1. Il riferimento era al Procuratore di Agrigento, che, riguardo alla vicenda del trattenimento di 150 migranti a bordo della nave Diciotti della Guardia Costiera, ferma ormai da diversi giorni presso il porto di Catania, ha avviato un’inchiesta contro ignoti per sequestro di persona e arresto illegale.
Colpisce la durezza della reazione e induce a chiedersi cosa rischi effettivamente Salvini qualora il procedimento andasse avanti e coinvolgesse il “responsabile” della situazione, secondo le provocatorie affermazioni dello stesso Ministro.
La Costituzione prevede che, per quanto riguarda i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, il Presidente del Consiglio e i ministri, «anche se cessati dalla carica», sono sottoposti «alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale» (art. 96). Tale disposizione è stata modificata dalla legge costituzionale n. 1 del 1989, prima della quale anche il Presidente del Consiglio e i ministri, al pari di quanto è ancora previsto per il Presidente della Repubblica (art. 90), in caso di reati commessi nell’esercizio delle funzioni, dovevano essere messi in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte costituzionale.
Il Ministro dell’Interno, dunque, rischia, in astratto, un processo penale dinanzi alla giurisdizione ordinaria, peraltro per reati di particolare gravità.
Lo stesso art. 96 Cost. stabilisce, tuttavia, che il processo possa avere luogo previa autorizzazione parlamentare e la legge costituzionale del 1989 precisa che l’autorizzazione deve essere data dalla Camera cui appartengono le persone nei cui confronti si deve procedere, anche se il procedimento riguardi soggetti che non sono parlamentari. La competenza spetta, invece, al Senato se le persone appartengono a Camere diverse o se si deve procedere esclusivamente nei confronti di soggetti che non sono membri delle Camere (art. 5).
Il Parlamento, tuttavia, non può negare a piacimento l’autorizzazione. La normativa vigente richiede, infatti, alcune condizioni: in particolare, l’art. 9, comma 3, della legge attuativa stabilisce che la Camera competente a dare l’autorizzazione «può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». Possono certo sorgere dubbi sulla natura del reato contestato, se cioè si tratti di un reato “ministeriale” o “comune” e, in passato, è stata più volte chiamata a pronunciarsi sul punto la Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (sentenze nn. 241 del 2009, 87 e 88 del 2012).
Il Ministro dell’Interno è probabilmente convinto che, nell’ipotesi in cui l’inchiesta giudiziaria avviata dalla Procura di Agrigento finisse con il coinvolgerlo, il reato sarebbe qualificato come “ministeriale” ed egli, appellandosi al «preminente interesse pubblico», perseguito «nell’esercizio della funzione di Governo» e potendo contare sull’appoggio della maggioranza assoluta del Senato, non avrebbe molto da temere. Certo, si sa che le condizioni politiche possono mutare anche rapidamente e non è detto che le cose vadano esattamente come previsto.
Se, dunque, Salvini non sembrerebbe rischiare granché in questa vicenda (almeno per il momento), il pericolo che il Paese corre, come ha ben scritto Roberto Bin, è quello di finire con il ritenere normale che l’“interesse pubblico”, così come inteso dal Governo, possa prevalere sui principi fondamentali della Costituzione (come la garanzia della libertà personale, qualificata come «inviolabile» dall’art. 13), legittimando ogni possibile comportamento, persino un sequestro di persona. Al di là del caso specifico, l’atteggiamento di sfida del Ministro sembra esprimere proprio questa idea: che non c’è legge o Costituzione che tenga quando sussiste il superiore interesse pubblico, espresso ovviamente dal governante di turno che se ne autoproclami esclusivo e insindacabile interprete. Una logica antitetica a quella dello Stato di diritto (la stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che il principio «salus rei publicae suprema lex esto» non può essere invocato per sospendere le garanzie costituzionali: si vedano, ad esempio, le sentenze nn. 151 del 2012 e 89 del 2014).
Nulla di nuovo sotto il sole, dirà qualcuno. E, in effetti, è così: quante nefandezze sono state compiute, nel passato più o meno recente, in funzione della ragion di Stato e nella convinzione che comunque il fine giustificasse i mezzi?
Si tratta di una logica contro la quale, tuttavia, i Costituenti intesero porre le fondamenta di un nuovo ordinamento, quello appunto repubblicano, nel quale la persona umana fosse intesa sempre come un fine e mai come un mezzo. Siamo sicuri che, sfruttando la condizione disperata di 150 persone, non si stia tradendo nel profondo la nostra identità nazionale, che trova nei principi fondamentali e nei diritti inviolabili dell’uomo il suo «nucleo duro»? Siamo certi che l’“interesse pubblico” che deve prevalere non sia sempre e comunque la tutela della dignità umana? E quando ad essere messa in discussione dal declamato “interesse pubblico” non sarà la dignità degli altri, ma la nostra, a quali garanzie ci appelleremo?