L’esclusione degli stranieri dal c.d. reddito di cittadinanza e il ruolo del Presidente della Repubblica

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di Salvatore Curreri

La dichiarazione del Vice Presidente del Consiglio Di Maio di riservare il reddito di cittadinanza solo agli italiani suscita forti dubbi d’incostituzionalità. Dubbi che traggono origini e trovano conferma in una consolidatissima giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto agli stranieri regolari – per intenderci quelli che lavorano e pagano le tasse nel nostro paese e sono dotati di permesso di soggiorno – il diritto di fruire, al pari dei cittadini, di diverse prestazioni sociali.

Sotto il profilo soggettivo, la Corte ha più volte chiarito che per stranieri regolari devono intendersi non solo coloro che sono in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo (ottenibile dopo cinque anni di regolare soggiorno) ma anche quelli semplicemente regolari, cioè dotati di permesso di soggiorno, indipendentemente dalla sua durata; infatti, per la Corte costituzionale sarebbe irragionevole presumere che costoro, e il loro nucleo familiare, versino in uno stato di minore bisogno sol perché non hanno ancora maturato il diritto di avere il permesso di soggiorno di lungo periodo.

Sotto il profilo oggettivo, la Corte costituzione ha da tempo affermato che “una volta che il diritto a soggiornare (…) non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini” (C. cost., 306/2008, 10). Allo straniero, dunque, vanno riconosciuti “tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona” (C. cost. 148/2008, 3) e, quindi, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» (C. cost. 105/2001, 4). Se un tempo, quindi, era lo status del soggetto (cittadino o straniero) a determinare i diritti, oggi, al contrario, sono i diritti che prevalgono perché attribuiti ad ogni uomo, indipendentemente dal suo status

Per spiegare meglio il motivo per cui l’esclusione degli stranieri sarebbe incostituzionale ricorro ad un esempio tratto da un caso oggetto di una censura d’incostituzionalità della Corte.

La Regione Lombardia, ai tempi del Presidente Formigoni, aveva approvato una legge che riservava ai soli cittadini italiani totalmente invalidi per cause civili il diritto alla circolazione gratuita sui mezzi di trasporto pubblico. La Corte costituzionale ha dichiarato tale legge incostituzionale perché irragionevole in quanto trattava in maniera diversa situazioni invece meritevoli di essere trattate in modo uguale. Infatti, se la ratio del beneficio era la solidarietà sociale nei confronti di soggetti affetti da un handicap fisico per permettere loro di poter circolare liberamente, escludere gli invalidi stranieri era frutto di una scelta palesemente discriminatoria, quindi lesiva del principio d’eguaglianza (C. cost. 432/2005).

Questo ragionamento la Corte ha replicato per gli alloggi sociali nonché per diverse misure d’integrazione e assistenza sociale: indennità di accompagnamento; pensione di inabilità, se titolari di un reddito; pensione d’inabilità; provvidenze a favore di persone non autosufficienti; assegno sociale di sostentamento agli invalidi civili; indennità di frequenza mensile per i minori; indennità e pensione per ciechi e sordi; misure di sostegno alla maternità e agli affitti.

Si obietterà: sarebbe bello estendere tali prestazioni sociali a tutti ma purtroppo la limitatezza delle risorse economiche destinate al loro finanziamento impone di circoscrivere la platea dei loro beneficiari. Di tale obiezione è ben consapevole la stessa Corte costituzionale che, tuttavia, non la ritiene insuperabile perché le scelte del legislatore sono comunque soggette a vincoli di ordine costituzionale: gli obblighi europei che, anche per quanto riguarda le prestazioni sociali, esigono la parità di trattamento tra i cittadini italiani ed europei e i soggiornanti di lungo periodo; ancor prima, e principalmente, il principio d’eguaglianza secondo cui ogni distinzione di trattamento tra stranieri e cittadini non può mai tradursi nell’esclusione dei primi dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai bisogni primari della persona, riconosciuti ai secondi: “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (C. cost. 275/2016, 11).

Le cronache di queste ore danno conto di un serrato confronto tra Governo e Presidenza della Repubblica sul pacchetto sicurezza ed immigrazione proposto dal Ministro dell’Interno. Confronto che certo può suscitare istintiva perplessità in coloro che, magari anche alla luce degli studi effettuati, ritengono che i decreti legge e i disegni di legge del governo siano, come si suol dire, atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi, cioè atti d’iniziativa governativa il cui contenuto è deciso per l’appunto dall’esecutivo rispetto ai quali il Presidente della Repubblica dovrebbe astenersi da ogni valutazione di merito politico. Perplessità che certamente possono trarre alimento dal doveroso riserbo e dalla segretezza che circonda un simile confronto.

Il Presidente della Repubblica, però, in sede di controfirma, non svolge una funzione meramente notarile, nemmeno riguardo ai disegni di legge del Governo (art. 87.4 Cost.). Egli è, infatti, comunque tenuto a svolgere su di essi un controllo preventivo di legittimità, seppur la dottrina ritenga che esso vada limitato ai profili di eclatante incostituzionalità. Infatti, a differenza della promulgazione di un disegno di legge già approvato dalle Camere, in questo caso l’oggetto del controllo è un disegno di legge che ben potrebbe essere modificato nel corso del procedimento parlamentare. Per questo motivo i casi in cui il Presidente della Repubblica ha negato la sua firma a disegni di legge del Governo sono rari (mi sovvengono alla mente quelli sul c.d. Eurojust e sul lodo Schifani).

È ovvio che, ai fini della individuazione di tali casi di manifesta incostituzionalità, il Presidente della Repubblica usa la bussola della Costituzione e della giurisprudenza della Corte costituzionale, quando per l’appunto consolidata.

Il fatto che, come detto all’inizio, i giudici di Palazzo della Consulta abbiano più volte ribadito l’obbligo per il legislatore di parificare cittadini e stranieri nel godimento delle prestazioni sociali potrebbe quindi indurre il Presidente a negare la sua firma e, ancor prima, il Governo a dover, per evitare tale censura, circoscrivere ulteriormente i beneficiari del reddito di cittadinanza per ragioni di copertura finanziaria.

Inutile dire a chi il Governo addosserebbe la responsabilità di tutto questo, quando invece la causa sarebbe ben altra: non l’essere la Costituzione contro questa maggioranza, ma l’essere questa maggioranza contro la Costituzione.

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2 commenti su “L’esclusione degli stranieri dal c.d. reddito di cittadinanza e il ruolo del Presidente della Repubblica”

  1. Analisi chiara e utile alla comprensione. Anche la conclusione é rigorosamente conseguente. Il che peró non conduce alla liquidazione dell’argomento, ma apre a una richiesta di maggiore precisione delle regole specialmente alla luce dei fenomeni attuali. Si potrebbe per esempio chiedere di cambiare la costituzione in modo che i servizi di questa societá siano goduti dai taxpayers (anche quelli che non hanno soldi per pagarle, insomma quelli con il codice fiscale e l’isee). Il concetto secondo il quale chiunque stia sul territorio italiano possa godere degli stessi benefici dei taxpayers é poco gradito. Creare obblighi verso chi ancora non é sul territorio, sarebbe un invito a venire per godere dei servizi italiani, ma non deve contribuire con alcun impegno verso i tax payers. (mutatis mutandis il concetto vale anche per gli evasori fiscali).

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  2. Concordo ovviamente con l’analisi. Il problema è grande come una montagna. Francamente da straniero non mi sento garantito dalla Corte costituzionale (e dalle acrobazie giuridiche di questo paese), ma semmai dai Trattati europei e dalla Corte di giustizia. È del tutto evidente che nello stato attuale del diritto l’idea promossa di concerto da Di Maio e da Salvini – comunque contraddetti dal MEF Tria – è illegale e quindi in linea di massima irrealizzabile. Ma quello che la legge non può togliere la prassi amministrativa lo può in larga misura vanificare. I populisti al governo faranno esattamente quello. Lo scopo politico è chiaro: si gioca sulla rabbia dei disagiati sfruttando il loro rancore contro gli immigrati che invadono il paese per godere delle generose protezioni sociali spesso negati ai cittadini. È quella la matrice che ha fatto vincere la Brexit e Trump. Questo è letteralmente nazional-socialismo, cioè protezione sociale riservata a coloro che fanno parte della nazione. È un gioco pericoloso che può portare lontano. Che cosa succede con gli stranieri quando il paese, fallite le riforme economiche e crollate le finanze pubbliche, sempre più povero e più vicino alla ribellione dei perdenti, esce dalle garanzie europee?

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