Forse non tutti sanno che… a proposito della manovra in deficit

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di Andrea Pisaneschi

Forse non tutti sanno era ed è una divertente rubrica della settimana enigmistica dove si rinvengono curiosità di vario tipo e genere. Forse non tutti i nostri governanti sanno che, sembra di recente essere diventato un refrain rispetto alle decisioni e soprattutto alle giustificazioni che essi danno delle loro decisioni nelle materie economiche.

Dopo una serata al termine della quale l’esultanza sui balconi sembrava pari a quella della banda di ladri  che finalmente è riuscito a svaligiare la banca, e dopo lo straprevisto e conseguente crollo della borsa e innalzamento dello spread, le dichiarazioni dei governanti sono ancora più aggressive e felici. I mercati se ne faranno una ragione, dichiara un vice ministro, mentre l’altro utilizza per l’ennesima volta la espressione di un evento “storico” che si è verificato (c’era un altro governante in passato che usava spesso questa parola e che non ha creato fortuna né al paese nè a sé stesso).

La prima affermazione, tuttavia, è senz’altro giusta: non c’è dubbio che i mercati se ne faranno una ragione per il semplice fatto che usciranno progressivamente dall’Italia e questo, per loro, non sarà un danno, dato che nel mondo vi sono moltissimi mercati migliori del nostro dove investire. Diverso è invece per l’Italia, che da un lato sbeffeggia i mercati ma dall’altro ne ha fortemente bisogno per rifinanziare il suo enorme debito pubblico. Peraltro, dopo che i mercati se ne saranno fatti una ragione , il paese pagherà certamente interessi più elevati sul proprio enorme debito, probabilmente mangiandosi con questi quanto stanziato per il reddito di cittadinanza.

In questo contesto l’Europa, e i suoi vincoli sono il problema minore. IL vero problema è che molto difficilmente una manovra improntata sul debito spingerà la crescita economica,  per una ragione molto semplice, tra le altre che moltissimi hanno messo in luce.

Perché dopo la manovra se la borsa perde 4% le banche perdono l’8%? E’ molto semplice: le banche sono i primi compratori di titoli di Stato. Il portafogli finanziario delle banche italiane è composto in grande parte da titoli di Stato (italiani) che esse detengono in misura proporzionale ai propri attivi. Questo è del tutto normale. Tutte le banche, in tutti i paesi del mondo, detengono titoli di Stato del proprio paese. Si può anche dire che le banche vengono in qualche modo sollecitate dai propri governi a mantenere titoli di Stato in bilancio allo scopo di stabilizzare la relazione tra domanda ed offerta. Del resto le banche investono –attraverso il credito- in aziende del proprio paese. E’ del tutto logico che una parte di questi investimenti sia indirizzata anche all’acquisto del debito dello Stato.

Però quando lo spread sale, il valore di mercato del titolo scende, generando una minusvalenza importante. Questa minusvalenza, sino al 2011 non veniva portata in bilancio, perché se i titoli erano detenuti sino alla scadenza (quindi non oggetto di trading) si presumeva che lo Stato non fallisse, e che a scadenza rimborsasse completamente il titolo. Poi l’EBA con una regola molto discussa, ma che però è in vigore, e che fu introdotto durante la crisi degli spread, ha stabilito che le minusvalenze sui titoli di Stato debbono essere portate a bilancio.  Siccome i requisiti di solidità delle banche derivano da un rapporto tra patrimonio e attivi a rischio (che si chiama in Basilea III, CET 1) le minusvalenze intaccano il patrimonio delle banche.

Ora, se il numeratore si riduce, le banche hanno due possibilità: ricostruire il numeratore facendo aumenti di capitale o ridurre il denominatore, cioè gli attivi a rischio. E’ evidente che gli aumenti di capitale costano, ma è anche evidente che siccome “I mercati se ne fanno una ragione” non vi sarà alcun interesse da parte di investitori ad investire nuovamente nel sistema creditizio italiano. Ne consegue che queste non potendo incidere sul numeratore, dovranno necessariamente lavorare sul denominatore, e cioè diminuire gli attivi per mantenere i livelli di CET1 previsti dalla vigilanza. Il che si sostanzia, in parole semplici, in una riduzione di prestiti al sistema Italia.

Questo effetto sarà moltiplicato dalle Agenzie di Rating, che ovviamente a breve declasseranno il debito italiano con effetto diretto non solo sul debito (cioè sul costo di rifinanziamento del medesimo) ma anche sul rating delle aziende italiane (cioè sul loro merito creditizio). Quando un paese viene declassato, infatti, parallelamente vengono declassate anche le aziende che hanno sede in quel paese. Questo produce l’ulteriore effetto che, ancora secondo le regole di Basilea, poichè i prestiti ad aziende con rating peggiore “assorbono” maggior capitale a garanzie nelle banche,  per compensare tale maggior assorbimento il sistema creditizio dovrà  necessariamente far pagare di più il credito. Avremo quindi meno credito, cioè meno circolazione di denaro ad un prezzo maggiore. E questo non lo ha stabilito l’Europa.

Questo problema infine è accentuato dal fatto che  l’Italia è stato l’unico paese europeo a non effettuare interventi pubblici di ricapitalizzazione delle banche quando – nel mezzo della crisi- tutti i paesi lo hanno fatto. La conseguenza è  che gli indici di CET 1 del sistema bancario italiano sono mediante inferiori  rispetto alle banche europee. Queste ultime sono più solide ed hanno sede in paesi più affidabili e quindi i flussi di denaro si sposteranno verso di esse, impoverendo sempre di più l’Italia. Ne è valsa la pena ?

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