di Cosimo Pietro Guarini*
La retorica della “politica per il popolo” non è certo una novità nel panorama repubblicano italiano e, a dire il vero, neppure nel panorama politico-istituzionale europeo degli ultimi cento anni. Non stupisce, pertanto, che essa sia matrice impressa a fuoco nel dna di movimenti politici che ammiccano orgogliosamente alle radici populiste e sovraniste (rectius: nazionaliste) dei giorni più cupi del Secolo breve.
Il recente utilizzo disinvolto di categorie quali «sovranità» e «popolo» presso la più alta sede della rappresentanza internazionale, l’Assemblea Generale dell’ONU, da parte del (non a caso) «Avvocato del popolo italiano» e Presidente del Consiglio, Prof. Giuseppe Conte, con loro (quantomeno) acritico accostamento omologico a quelle di «sovranismo» e «populismo», pare essere fulgido esempio di un inesausto refrain propagandistico che rinviene la propria autoreferenziale legittimazione nell’improprio richiamo alla Carta costituzionale italiana e al suo art. 1. Quasi che quest’ultimo possa leggersi estrapolato dal contesto in cui alligna e completamente sganciato dai numerosi principi e valori che lo seguono e che gli conferiscono forma e sostanza.
Ma se alcune dichiarazioni infelici (almeno dal punto di vista dell’esegesi giuridica) di carattere puramente demagogico possono al più costituire indice rilevatore di un mutato clima politico (di cui, peraltro, si poteva cominciare ad avere contezza già a partire dal 4 marzo di quest’anno), ben diversa è la valutazione che bisognerebbe fare quando la retorica della “politica per il popolo” è fondamento (e trova radicamento) in atti che impegnano lo Stato italiano di fronte a se stesso, alla comunità internazionale, all’UE e ai mercati internazionali.
Non è questa la sede per ricordare ai più che l’adesione all’UE, la sottoposizione ai vincoli di bilancio europei, la ratifica del Fiscal Compact e di altri trattati aventi ad oggetto regole finanziarie e di bilancio, l’introduzione in Costituzione dei princìpi dell’equilibrio del bilancio e del contenimento della spesa pubblica così come della tutela della concorrenza e del mercato sono tutte tappe raggiunte, senza ombra di dubbio, da organi espressione del “popolo italiano” e nelle forme costituzionali di esercizio democratico della “sovranità popolare”.
Né il fardello di questo impegno diviene più leggero se alcuni ministri della Repubblica italiana si fanno ritrarre festanti al termine del Consiglio dei Ministri che ha approvato la nota di aggiornamento al DEF, ebbri di irrituale entusiasmo. Specie se le successive dichiarazioni dei due Vice Presidenti del Consiglio (forse meglio sarebbe appellarli quali Semi-Presidenti del Consiglio), on.li Di Maio e Salvini, ripropongono icone populiste atte a scacciare dall’immaginario collettivo distopie costruite ad arte dalle molte Cassandre che affollano gli scranni dell’opposizione parlamentare e i mefistofelici disegni di complottanti élite plutocratiche.
Sulle implicazioni della (inutilmente sbeffeggiante) espressione del leader leghista «i mercati se ne faranno una ragione» ha già ampiamente detto Andrea Pisaneschi in questa Rivista (28 settembre).
Qui, invece, ci si vuole soffermare su alcune dichiarazioni del leader pentastellato che ha sin da subito inneggiato ad «una manovra per il popolo italiano».
Alla luce di quanto emerge dai primi resoconti giornalistici sui suoi futuri contenuti, il ricorso al deficit con cui si conta di realizzarla (+2,4% annuale per i prossimi tre anni), vistosamente più alto di quanto promesso in autorevoli sedi internazionali dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, Prof. Tria (+1,6%), sarà compensato dall’aspettativa di «un debito che scenderà per una crescita inaspettata» (sic!).
Crescita che, però, non sarà alimentata dall’innalzamento delle pensioni minime, essendo di portata sostanzialmente irrilevante ai fini dell’incremento del PIL l’impiego atteso del “rimpinguamento” delle stesse. In termini probabilistici (ma, prima ancora, sillogistici), difficilmente la crescita sarà alimentata dalla revisione dei requisiti per poter accedere al trattamento previdenziale (c.d. quota 100) essendo tutta da dimostrare in concreto la fondatezza dell’equazione tanto cara alla compagine di governo “un pensionamento=due nuove assunzioni”. È semmai più probabile, infatti, che l’impresa o la p.a. cui venga a mancare un dipendente per quiescenza necessiterà (e nemmeno sempre) di rimpiazzarne, giustappunto, solo uno.
Scarsamente incidente sulla futura «inaspettata crescita» appare anche il c.d. reddito di cittadinanza, che se, da un lato, si anima di finalità sociali indubbiamente meritorie (sempre che funzioni con rigore, diversamente saranno solo assistenziali), dall’altro lato, si agita in un quadro ancora nebuloso e con effetti virtuosi che, ove tutto andasse bene, si realizzerebbero solo nel medio-lungo termine (forse, troppo lungo). Di certo non contribuirà alla crescita del prossimo anno più di quanto avrebbe garantito l’esecuzione delle grandi opere all’uopo “sospese” in attesa di una lunga e farraginosa rivalutazione costo-beneficio.
Sullo sfondo di questo quadro impressionistico si staglia, sempre cupo, l’arcinoto e malevolo aumento dello spread che non solo brucerebbe una parte più o meno cospicua dei miliardi rinvenienti dal maggior indebitamento previsto nella prossima legge di stabilità ma, soprattutto e in prima battuta, con il rialzo dei tassi, aumenterebbe i costi dell’accesso al finanziamento dei piccoli e medi imprenditori e professionisti (cioè proprio di coloro che, in massima parte, dovrebbero procedere alla già ricordata assunzione di due al posto di uno) funestando i modesti effetti positivi derivanti dalla riduzione della loro tassazione.
Ma non v’è da preoccuparsi. Tutto sarà messo a posto da “una mano invisibile” (più che Keynes, pare tornato di moda Smith) che in qualche modo condurrà ad «un debito che scenderà per una crescita inaspettata». Un atto di fede. O forse una scommessa, un azzardo. Sulla pelle del popolo sovrano.
* Professore associato di Istituzioni di Diritto pubblico – Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Dipartimento di Economia e Finanza