Giudici (di Cassazione) renitenti alla Corte costituzionale

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di Fabio Ferrari

Si è avuto modo di dare conto in questo giornale di un’importante sentenza (269/2017): in essa, la Corte costituzionale sembra aver parzialmente mutato parte della propria giurisprudenza in tema di rapporti tra diritto interno e diritto UE. Il significato complessivo di quella pronuncia non è del tutto chiaro, e la dottrina si sta ancora interrogando sul punto; in massima sintesi, e per quanto qui può interessare, si può affermare che innanzi ad una norma di diritto interno potenzialmente incompatibile con i principi della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’UE), il giudice italiano dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale direttamente alla Corte costituzionale, spettando a quest’ultima valutare l’eventuale conflitto e, ove appurato quest’ultimo, dichiarare l’illegittimità della norma interna.

In una recente sentenza (12108/2018) la Corte di cassazione, sezione lavoro, si è trovata a dover valutare qualcosa di molto vicino all’ipotesi descritta: la normativa italiana (l. 100/2010) prevede la medesima età pensionabile per ballerini e tersicorei di entrambi i sessi, prescrivendo però un regime transitorio – e derogatorio – diverso per uomini e donne.

A taluni di quelle professioniste ciò è parso discriminatorio, in particolare per violazione della Direttiva UE (2006/54/CE, sulla pari opportunità di genere in tema di lavoro e impiego) e dell’art. 21 della Carta di Nizza (divieto di discriminazione).

Il merito delle vicende processuali qui non interessa. È molto importante, però, comprendere il ragionamento della Cassazione, la quale avrebbe potuto – e forse dovuto, dopo la sent. 269/2017 – sollevare una questione di legittimità sul punto alla Corte costituzionale. Ma così non è avvenuto, perché?

Con tutta probabilità ha ragione la Cassazione quando afferma che il contrasto con l’art. 21 della Carta di Nizza è soltanto ‘indiretto’, poiché il vero parametro di riferimento è la Direttiva 2006/54. La Carta dei diritti fondamentali, dunque, è richiamata dal ricorrente solo ad adiuvandum, per rafforzare, enfatizzare una domanda processuale che potrebbe tranquillamente reggersi da sola, senza bisogno di scomodare la solenne Carta.

Vi è però una motivazione successiva che la Corte sente il bisogno di dare, e che appare – nella migliore delle ipotesi – davvero sorprendente: essa

 

«ritiene che il principio affermato nel punto 5.2 della citata sentenza [269, ndr] (…) costituisca un mero obiter dictum, in quanto la sentenza è (sul punto) di inammissibilità e sotto altro profilo di rigetto e quindi non ha natura obbligante per il Giudice ordinario offrendo solo una proposta metodologica»

 

È difficile, almeno per chi scrive, comprendere il senso di un tale ragionamento. Già il fatto che si ritenga possibile trarre dalla sentenza di un altro giudice una «proposta metodologica» risulta assai opinabile, essendo – fino a prova contraria – le pronunce giurisdizionali la sede di ragionamenti giuridici, non di altro. La circostanza che poi, a questo risultato, si giunga sul presupposto del non accoglimento della questione di legittimità, da cui deriverebbe la natura di mero obiter dictum del più noto passaggio della 269/2017… è quasi preoccupante.

Si potrebbe pensare ad una ‘svista’ estemporanea, sperando in un rapido ravvedimento. Bisogna al contrario constatare che tredici giorni dopo la presente pronuncia, la medesima sezione lavoro della Corte di cassazione, in eguale composizione, ha depositato un’ulteriore sentenza (la 13678) avente ad oggetto un caso assai analogo (deroga all’età massima di permanenza in servizio di una particolare categoria di piloti d’aereo): ed è giunta ad identiche conclusioni, al punto da replicare quasi completamente il passo sopra riportato (p. 16 cons. dir.).

Davvero possono essere così derubricabili le sentenze di non accoglimento della Corte costituzionale? E anche così fosse, davvero i presunti obiter della Corte costituzionale rappresentano delle semplici «proposte metodologiche»?

Un esempio: la giurisprudenza costituzionale sui limiti ‘interni’ alla revisione costituzionale si basa in primis su una storica sentenza del 1988: la 1146. Si trattò di una pronuncia di inammissibilità, in cui la Corte costituzionale chiarì in modo perentorio quanto segue:

 

Non si può (…) negare che questa Corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali anche nei con fronti dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Se così non fosse, del resto, si perverrebbe all’assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore

 

Se il Parlamento approvasse una legge di revisione costituzionale con cui brutalmente si eliminano l’indipendenza e l’autonomia della magistratura (Cassazione compresa), sottoponendola all’esclusivo arbitrio del potere legislativo o esecutivo, la Corte costituzionale avrebbe titolo per dichiararla illegittima, proprio perché lesiva di uno dei «principi supremi dell’ordinamento costituzionale».

Qualcuno potrebbe argomentare diversamente, sostenendo che una tale giurisprudenza della Corte costituzionale si basa su un mero obiter, reso in una pronuncia di inammissibilità, e confluito in una giuridicamente innocua «proposta metodologica»?

La sent. 269/2017 contiene, con tutta probabilità, degli aspetti problematici di non poco rilievo; ma pensare di risolverli destituendo quella pronuncia del carattere prescrittivo che le è proprio non è, forse, la soluzione più convincente. Per non parlare di quel minimo di deferenza reciproca che sarebbe sempre opportuno mantenere tra giudici e istituzioni di questa importanza.

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