di Antonio D’Andrea
Nel discutere del rilancio delle autonomie territoriali nell’ordinamento italiano in una recentissima occasione nella quale erano presenti autorevoli costituzionalisti (che da tempo indagano il sistema autonomistico del nostro Paese), ho sostenuto, da studioso interessato a preservare un assetto democratico e partecipativo nel quale si possa esprimere il “buon” autogoverno territoriale, una tesi semplice che mi appare logica e in linea con gli scopi dichiarati e perseguiti in particolare dai colleghi che si occupano della questione con maggiore competenza e profondità.
Sarebbe utile per la dottrina sensibile al sempre maggiore radicamento della cultura autonomistica (non solo della propria quanto di quella altrui) attestarsi, in sostanza, su di un piano di assoluto realismo e gradualismo agevolando il superamento delle attuali difficoltà politiche incontrate sul punto, non complicando ulteriormente il cammino che si vorrebbe fosse ripreso dopo il rigetto della riforma costituzionale Renzi-Boschi e l’entrata in vigore della legge Del Rio, n. 56/2014. Egualmente non è neppure sensato, a mio parere, continuare ad assecondare, eludendo la portata dei problemi politici prima ancora che tecnici, ciò che qualche collega ha esplicitamente definito “immanenti dinamiche psicologiche”, così da completare in tutta fretta il percorso intrapreso da alcune delle maggiori Regioni ordinarie del nord (Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna), che reclamano con forza il raggiungimento di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, ai sensi dell’art.116, terzo comma, Cost., introdotto, come è noto, con la riforma del Titolo V della Parte Seconda della Costituzione. Partiamo dunque da qui.
Il percorso intrapreso in due delle tre Regioni coinvolte (Veneto e Lombardia), dopo la mobilitazione del corpo elettorale regionale da parte dei rispettivi governi territoriali, attraverso suggestivi e costosi referendum (collocabili a metà strada tra l’autostimolo per caricarsi con decisione nella inevitabile trattativa con gli organi politici nazionali e l’avvertimento rivolto a questi ultimi a non eludere l’aspirazione autonomista di una quota significativa di elettorato potenzialmente “neutro” collocato in territori strategici per l’intero Paese), essendo stato strumentalmente e inutilmente azionato per ragioni tattiche (tutte interne alla dirigenza di quella che allora era ancora la Lega nord), non dovrebbe tuttavia né condizionare né preoccupare oltre misura (se non il Presidente della Regione Veneto che, a differenza del suo omologo lombardo uscito di scena, è ancora in quel ruolo istituzionale e una qualche comprensibile impazienza dimostra di avere per la definizione della “faccenda”).
Ovviamente nessuno, credo anche tra i costituzionalisti, si meraviglierebbe se nonostante le lacune procedurali riscontrabili nella evocata disposizione costituzionale (e che non sono state affrontate da norme attuative che andrebbero a beneficio di una oggettiva razionalità dei passaggi da effettuare), il procedimento si concludesse egualmente. Dovrebbe maturare, va da sé, dal “centro” una precisa volontà politica che al momento non si riscontra. Si potrebbe cioè, da un lato, individuare comunque un modo di giungere alla necessaria “intesa” tra Stato e Regione coinvolgendo sin da subito gli organi parlamentari (si pensi a una qualche mozione o risoluzione di indirizzo) prima ovviamente dell’approvazione a maggioranza assoluta della legge speciale o rafforzata (che in nessun caso sarebbe una semplice legge ordinaria), obbligata a ratificare l’accordo tra il Governo statale e quello regionale; dall’altro lato si potrebbe riuscire, almeno formalmente, a “sentire” gli enti locali (passando per la valorizzazione, almeno una volta, del Consiglio delle autonomie locali), così da soddisfare l’esigenza di dare voce agli enti infraregionali. Volendo si potrebbe sbrigativamente procedere così rozzamente pur di assecondare le “impellenze psicologiche” di quanti (?) premono per la maggiorazione dei poteri di governo che sono stati promessi ancor prima di rivendicarli! Sembra, fortunatamente, non essere questo il caso.
Resta comunque che quel che non si ottiene in assenza della volontà politica centrale favorevole a completare il raggiungimento per le Regioni richiedenti della legittima differenziazione (in qualche modo anche istruita prima dell’intervenuto rallentamento), degradi verso argomenti pretestuosi che prefigurano scenari catastrofisti (la stessa dissoluzione dell’unità nazionale) che, a mio avviso, finiscono per svalutare oltre misura la portata della disposizione costituzionale in questione che, viceversa, ha una sua sensatezza. Quella cioè di consentire il “giusto”ampliamento di funzioni, a partire da quelle legislative (che mi sembrerebbero decisive anche se non in tutte le materie reclamate, a partire dall’istruzione) in favore di Enti politici a tutti gli effetti, quali sono da sempre le Regioni, in grado cosi da assolvere ulteriori compiti rimessi allo Stato che potrebbe viceversa rinunciarvi ovviamente selettivamente. Le sacrosante cautele invocate affinché il percorso costituzionale di differenziazione regionale possa andare in porto senza tradursi in un sostanziale svuotamento della solidarietà nazionale (impoverendo ulteriormente i territori con minore capacità fiscale, così da restringere il godimento dei diritti fondamentali di quanti non risiedono in quelle Regioni “potenziate”) resterebbero comunque affidate non solo alla maggioranza governativa che dovrebbe autorizzare la differenziazione, quanto piuttosto alle disposizioni costituzionali (ben prima della definizione statuale dei LEP e del rispetto dell’art. 119, non a caso richiamato nel terzo comma dell’art. 116, resta il baluardo dell’art. 5 Cost.), in grado eventualmente di prevalere sulle stesse previsioni della legge attributiva del di più di autonomia regionale.
Tuttavia l’autonomia differenziata è prevista dal dettato costituzionale vigente e non si può fare finta che non esista, sebbene la prova muscolare offerta per ottenerla con il referendum veneto e lombardo sia sostanzialmente fallita e si sia risolta in una insana “dinamica psicologica” che deve però adesso essere governata con equilibrio. A tal fine potrebbe essere utile puntare al rilancio “ambientale” delle autonomie territoriali partendo dalla cosa più semplice da fare anche in termini di “sopportabilitá politica” centrale (malgrado non manchino prese di posizione dal sapore forse tattico) e che, a voler ben vedere, non tocca il potenziamento delle tre Regioni del nord ma il ripristino sull’intero territorio nazionale, della diretta elettività degli organi di governo delle Province. Si supererebbe così da subito, almeno per questo aspetto decisivo, la scelta della rappresentanza di secondo grado, rivelatasi velleitaria e operata con la legge n. 56/2014 in attesa di una riforma costituzionale che non si è concretizzata, così restituendo l’Ente provinciale alla sua effettiva vitalità costituzionale che impone una legittimazione piena del governo provinciale, a prescindere dalla sorte della c.d. area vasta. Ritornare all’attuazione basica del quadro costituzionale vigente (oltretutto entrambe le attuali forze governative hanno contrastato la riforma costituzionale renziana che prevedeva l’abolizione delle Province) consentirebbe di dare un segnale circa l’accettazione della logica complessiva connessa ai previsti livelli di governo territoriale inclusa quella sottesa all’art.116, terzo comma, Cost. A patto però di mantenere ferme due precondizioni. La prima: non mettere in discussione le Regioni speciali; la seconda: preservare l’autogoverno degli enti minori ponendo questi ultimi, sia pure in chiave prospettica, sotto l’ombrello “organizzativo ” della Regione nel momento stesso ove questa chiedesse di ampliare i propri compiti istituzionali. La promozione dell’autonomia regionale differenziata potrebbe essere, almeno ritengo, più facilmente “sopportata” dal centro (parlo in termini politici) quanto più essa risulti avvertita come una esigenza realmente fatta propria (promossa) dagli Enti locali indotti, cioè, a preferire un “centro” a loro più prossimo e più forte.
Meglio allora consigliare alle forze politiche della maggioranza di ripartire dal basso, dimenticando cioè la retorica referendaria lombardo-veneta per provare ad ascoltare (“sentire” seriamente però) quello che i territori vorrebbero davvero che le rispettive Regioni facessero per consentire a ciascun ente di svolgere al meglio, al suo interno, il proprio insopprimibile ruolo di pubblica amministrazione. La Regione resti perciò Ente politico chiamato, senza sovrapporsi, ad affiancare lo Stato e ove possibile chieda di assumere ulteriori responsabilità che ritenga di essere in grado di assolvere perseguendo la delineazione di una supplementare porzione di indirizzo politico e non altro; gli enti locali infraregionali, incluse le Province, amministrino i loro territori scegliendo liberamente chi se ne deve assumere il compito, chiedendo eventualmente il “cambio” del loro baricentro politico dallo Stato alla Regione. La politica, certamente non solo quella nazionale, sappia agire prestando la dovuta attenzione alle prescrizioni costituzionali, la cui osservanza riduce i rischi di complicanze istituzionali che possono in effetti fare danni rilevanti purtroppo non solo psicologici (che forse sono il meno).