I debiti della Regione Sicilia chi deve pagarli?

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di Glauco Nori

Lo Statuto della Sicilia, varato con R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455, è stato poi convertito nella legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2.

Probabilmente per l’atmosfera del momento, in cui era ancora forte lo spirito separatista, non se ne è verificata la conformità alla Costituzione (dalle cronache non risulta), entrata in vigore nel frattempo, forse anche per la convinzione che la questione restasse superata adottando la legge costituzionale. È solo successivamente che la Corte costituzionale ha spiegato che con legge costituzionale non era possibile derogare ai principi della Costituzione malgrado l’art. 139 potesse far pensare il contrario.

Una delle conseguenze è stata che per le modifiche e per le integrazioni dello Statuto si è adottata per così dire, una certa disinvoltura costituzionale. Secondo l’art. 36 dello Statuto “al fabbisogno finanziario della Regione si provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati della medesima. Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione e le entrate dei tabacchi e del lotto”.

La norma non avrebbe dovuto provocare dubbi: alla Regione si riconosceva un ampio potere impositivo, esclusi i settori economici riservati allo Stato. Che fosse la Regione a provvedere ai propri bisogni finanziari con i tributi deliberati direttamente, veniva a costituire uno dei capisaldi della sua autonomia.

Secondo l’art. 1 del D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 “La Regione siciliana provvede al suo fabbisogno finanziario a)… b) mediante le entrate tributarie ad essa spettanti”, non più quelle “deliberate dalla medesima”. La ragione si trova nell’art. 2 dove alla Regione sono assegnate quote di imposte statali, destinante a costituire la parte prevalente delle risorse regionali.

Con il D.P.R. sono state emanate norme di attuazione dello Statuto secondo il procedimento fissato nell’art. 43 per il quale “Una Commissione paritetica di quattro membri, nominati dall’Alto Commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato, determinerà le norme transitorie relative al passaggio degli uffici e del personale dello Stato alla Regione, nonché le norme per l’attuazione del presente Statuto”.

Non dovrebbe essere necessario ricordare che una norma di attuazione non può modificare la norma da attuare, in particolare quando la norma è costituzionale e la Commissione che ne prende l’iniziativa è costituita de soggetti estranei agli organi legislativi sia dello Stato che della Regione. Lo conferma, se ce ne fosse bisogno, l’art. 41-bis dello Statuto: “Per le modificazioni del presente Statuto si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le leggi costituzionali”.

La disinvoltura degli organi regionali, alla quale si è accennato, si è aggravata (sempre che almeno all’inizio ne fossero consapevoli), quando il D.P.R. è stato richiamato come parametro costituzionale per l’impugnativa di leggi statali. La questione, anche se prospettata, non è stata presa in esame dalla Corte costituzionale per avere ritenuto inammissibile il ricorso.

La Regione Sicilia può essere presa come laboratorio per l’analisi anche di altre vicende.

In questi giorni si torna a discutere della differenza tra quello che l’Italia dà all’Unione e quello che ne riceve. Non serve richiamare che il rapporto tempo a dietro era inverso.

Per la Sicilia la situazione è singolare perché spesso non è stata in grado si spendere le risorse assegnate dai fondi strutturali europei. Scaduto il termine, sono ritornate all’Unione finendo distribuiti in favore di quei Paesi che sono stati in grado di spendere i propri.

Per verificare quanto questo effetto sia dannoso e per non interferire sulla situazione attuale, si può richiamare quanto è capitato all’Italia negli anni ’70. Per avere certi benefici in agricoltura acconsentì ad alcune misure in favore di Paesi che finirono poi col ricevere anche parte di quelli non utilizzati dall’Italia. Quei Paesi ebbero così un doppio vantaggio. Anche di questo si dovrebbe tenere conto quando si recrimina su certi rapporti con l’Unione.

Il Governo nazionale non ha strumenti (o, per lo meno, non ha tentato di usarli) per intervenire, data l’autonomia della Sicilia. Questo non significa che non ci sia niente da fare.

 Attualmente l’Unione provvede all’attribuzione delle risorse, fissando un termine per l’utilizzazione: la responsabilità resta degli Stati, nelle articolazioni previste dalle Costituzioni rispettive. Se la direzione e il controllo fossero suoi, l’Unione potrebbe dare disposizioni per l’impiego tempestivo delle risorse. L’autonomia regionale, definita dal diritto interno, non può incidere sui poteri che l’ordinamento comunitario attribuisce all’Unione nelle materie di sua competenza. Basterebbe, pertanto, che, apportando le integrazioni necessarie, quei poteri gli fossero assegnati. Non è il caso di vedere come, dal momento che si tratta di una sola ipotesi.

In questo modo si avrebbe due risultati: sarebbero raggiunti gli obiettivi in vista dei quali l’Unione attribuisce i fondi; resterebbero superate le competenze nazionali decentrate che, dopo aver predisposto il programma, diventerebbero organi esecutivi delle disposizioni comunitarie. Sarebbe questo un caso nel quale, rinunciando ad un modesto settore della sovranità, si avrebbero benefici non di poco conto.

Per arrivare a tanto sarebbero necessarie almeno due condizioni: che l’Italia fosse in grado di rendere credibile la propria proposta: che gli altri Paesi ne vedessero l’utilità. Questa seconda condizione sembra oggi piuttosto lontana. I Paesi, che utilizzano integralmente i fondi, difficilmente saranno disposti ad una rinuncia, anche modesta, alla propria sovranità solo perché c’è un Paese che non è in grado di farlo con  le competenze nazionali.

Sinora, nemmeno la Corte dei conti ha rilevato l’illegittimità dal D.P.R. richiamato che ha continuato ad essere applicato. Se la questione dovesse essere proposta, con ogni probabilità sorgerebbero dubbi sulla competenza a decidere. Trattandosi di un atto di natura amministrativa, il ricorso sarebbe proposto (ma da chi?) davanti al giudice amministrativo. È presumibile (qualche cosa del genere è già capitata) che sarà prospettata una questione di ordine costituzionale, vale a dire se lo Statuto della Sicilia consenta alle norme di attuazione di modificare le norme che attua. La questione, esaminata di per sé, non dovrebbe essere difficile da risolvere. C’è, peraltro, da tenere conto di cosa succederebbe se il D.P.R. fosse annullato: almeno per un anno la Regione resterebbe senza risorse. Per evitarlo (perché questo sarà l’obiettivo di qualunque giudice), l’alternativa sarebbe o dichiarare legittimo il D.P.R. (con qualche acrobazia argomentativa) o scaglionare nel tempo gli effetti della illegittimità in modo di consentire alla Regione di predisporre le leggi necessarie. In questo secondo caso si avrebbe che, pur violando una norma costituzionale, qualche risultato utile si otterrebbe ugualmente se gli effetti della violazione fossero dirompenti.

Viene così in superficie un problema del quale l’opinione pubblica non risulta informata. Chi deve pagare i debiti delle Regioni? In particolare, chi deve pagare il debito della Sicilia?

La Sicilia ha una autonomia che probabilmente va al di là del consentito ed ha fatto i suoi debiti esercitandola.

I debiti, utilizzati nell’interesse dei cittadini e dei residenti, sempre dai residenti e dai cittadini dovrebbero essere pagati. Se fossero messi, anche in parte, a carico dello Stato, si profilerebbero almeno due illegittimità, entrambe di ordine costituzionale: la prima, perché sarebbe violata l’autonomia dal momento che questa comporta non solo che si possa fare ciò che si vuole, ma anche che poi si provveda ad intervenire sugli effetti; la seconda, per violazione del principio di uguaglianza, dal momento che gli oneri per un debito contratto nell’interesse della collettività regionale verrebbero messi a carico, in tutto o in parte, di collettività che non ne hanno avuto alcun  beneficio.

L’argomento continuerà probabilmente a non richiamare l’attenzione e, mimetizzato nel debito complessivo, rientrerà nelle discussioni con l’Unione: alla quale, le questioni interne, comprese quelle di ordine costituzionale, non interessano.

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