Crisi di governo e “surrealismo istituzionale”

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di Alessandro Morelli

Si può rivoluzionare un genere artistico senza esserne consapevoli o senza conoscere appieno canoni e regole dello stesso. Nel 1941, a soli venticinque anni, Orson Welles realizzò Citizen Kane (noto in Italia con il titolo Quarto potere), un film che cambiò per sempre il modo di fare cinema (François Truffaut avrebbe affermato di appartenere a una generazione di cineasti che avevano deciso di fare film proprio dopo averlo visto). “Ignoranza, ignoranza, ignoranza pura e semplice – vedi, non c’è sicurezza di sé che possa eguagliarla”, avrebbe detto, in un’intervista del 1964, Welles a proposito di quella sua opera prima, figlia di un “intraprendente dilettantismo” che lo aveva portato a infrangere tutta una serie di regole di regia che nessuno prima d’allora aveva mai messo in discussione (M. Carboni, Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare, Castelvecchi, Roma 2012). E che dire dei Beatles, autodidatti e incapaci di leggere la musica? Il loro straordinario talento istintuale, a dispetto di canoni e regole, diede vita a un’altra epocale rivoluzione artistica.

Sembrerebbe, da un po’ di tempo, che qualcosa del genere stia accadendo anche in ambito istituzionale. Con la non marginale differenza che in questo campo esistono norme giuridiche da rispettare, poste a garanzia di interessi ritenuti primari per la sopravvivenza e lo sviluppo della collettività, nonché prassi il cui rispetto serve a orientare il comportamento degli attori politici e a fornire loro un quadro di riferimento, per quanto possibile, definito e stabile. Parrebbe affermarsi una stagione di “surrealismo istituzionale” nel quale le dinamiche della forma di governo appaiono sempre più dettate da improvvisazione, emotività, irrazionalismo.

Con la presentazione delle dimissioni al Capo dello Stato è caduto il Governo Conte, a conclusione di una crisi rocambolesca, non facilmente classificabile nelle categorie elaborate dalla dottrina: non una crisi propriamente parlamentare, visto che un voto di sfiducia nei confronti del Governo non c’è stato, ma nemmeno assimilabile del tutto alle crisi extraparlamentari, che si consumano esclusivamente al di fuori delle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama, essendosi comunque svolto un dibattito parlamentare (si è parlato di “crisi semiparlamentare”, “quasi parlamentare” o “pseudoparlamentare”).

Non si può dimenticare però che questo stesso Governo era nato al termine di una vicenda altrettanto, se non più, paradossale, segnata anche da momenti tragicomici. Si pensi soltanto alla richiesta di impeachment nei confronti del Presidente Mattarella, preannunciata da Luigi Di Maio in una telefonata in diretta alla trasmissione Che tempo che fa, il 27 maggio 2018, dopo che il Capo dello Stato aveva rifiutato di nominare Ministro dell’Economia e delle finanze il professore Paolo Savona. Richiesta spropositata e del tutto priva di fondamento, poi ritirata il giorno dopo, dinanzi al ripresentarsi della possibilità di formare un Governo (sul “caso Savona” si vedano – oltre ai molti contributi pubblicati in questo giornale – gli scritti pubblicati nel volume Dal “contratto di governo” alla formazione del Governo Conte. Analisi di una crisi istituzionale senza precedenti, Editoriale Scientifica, 2018).

Peraltro, lo stesso Savona, entrato comunque nel Governo Conte, ma al Ministero per gli affari europei, dopo solo nove mesi ha lasciato l’incarico per assumere il ruolo di Presidente della CONSOB. Evidentemente la sua presenza non era proprio indispensabile per la sopravvivenza dell’Esecutivo. E, tuttavia – dirà qualcuno –, essa lo era in quel momento e in quel ruolo, per la formazione del Governo stesso, dato l’alto valore simbolico che assumeva, esprimendo messaggi (non proprio pacifici) ai partner europei e, nel contempo, cementando intorno a un vago sentimento antieuropeista i nuovi alleati. O meglio i “non alleati”. Già, perché il “contratto di governo” – il simbolo fondamentale del Governo gialloverde – sarebbe servito di lì a poco soprattutto ad evocare il concetto ambivalente di un’“alleanza-non alleanza”: l’idea che ciascuna delle forze politiche di maggioranza avrebbe potuto realizzare il proprio programma indipendentemente dall’altra, o meglio con i soli voti dell’altra, senza curarsi della compatibilità delle proposte in campo.

Il “contratto di governo” svolgeva, dunque, la funzione propria di un simbolo: componeva gli opposti in un unico vago messaggio di appartenenza. E, in tale prospettiva, tutte le misure erano conciliabili: flat tax, reddito di cittadinanza, regionalismo differenziato ecc.

Il surrealismo simbolista del Governo Conte ha trovato piena espressione nel dibattito parlamentare che ha preceduto le dimissioni del Presidente del Consiglio. Il quale, censurando l’abitudine del Vicepresidente e Ministro dell’Interno Matteo Salvini di fare uso di simboli religiosi durante i propri comizi, ha affermato: “Questi comportamenti non hanno nulla a che vedere con il principio di libertà di coscienza religiosa, piuttosto sono episodi di incoscienza religiosa che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e, nello stesso tempo, di oscurare il principio di laicità, tratto fondamentale dello Stato moderno”. Dopo l’appunto, Salvini ha risposto tirando fuori dalla tasca un crocifisso e baciandolo.

L’episodio s’inserisce in un contesto talmente surreale da apparire onirico. Il Presidente del Consiglio stava svolgendo, infatti, le proprie comunicazioni relative a una crisi aperta con la presentazione di una mozione di sfiducia contro il Governo da parte dei parlamentari della Lega; mentre gli stessi Ministri della Lega (compreso Salvini) non avevano presentato le dimissioni, tanto che, almeno all’inizio della riunione, essi si erano seduti regolarmente accanto agli altri componenti del Governo. Nel corso di un dibattito dai toni molto accesi è stata, infine, diffusa la notizia del ritiro della mozione medesima. Un ritiro che non ha però dissuaso Conte dal presentare le dimissioni al Presidente della Repubblica.

A quest’ultimo spetta ora il compito di svolgere le consultazioni necessarie a verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare che sia in grado di dare vita a un nuovo Esecutivo.

In attesa di vedere quali ulteriori sviluppi avrà il “surrealismo istituzionale” alimentato dal diffuso, intraprendente dilettantismo politico, possiamo forse trarre ispirazione dal Manifesto di André Breton del 1924, nel quale si definiva il surrealismo stesso come quell’“automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. Una siffatta tendenza non appare conciliabile con i principi della democrazia costituzionale, che dalla ragione, ma anche dalla morale non può prescindere del tutto. Se non altro perché, come prevede l’articolo 54 della Carta repubblicana, i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, oltre a dover essere fedeli alla Repubblica e a doverne rispettare la Costituzione e le leggi (come tutti gli altri), hanno il dovere di adempiere le funzioni stesse con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.

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1 commento su “Crisi di governo e “surrealismo istituzionale””

  1. Riferendomi alla “crisi di governo non facilmente classificabile nelle categorie” convenzionali, non capisco perché la dottrina non contempli fra le distinzioni fondamentali il caso, secondo me indispensabile, di una crisi del governo per decisione del primo ministro. Parlamentare o extra-parlamentare dovrebbe significare (nella mia logica giuridica) dimissione eterogenea, obbligata, provocata da un voto di sfiducia o autogena, non giuridicamente vincolata, ma decisa per qualsiasi ragione valutata discrezionalmente dal titolare. Qualcuno può anche rassegnare le dimissioni perché si rende conto che non è all’altezza. Le manovre nei partiti, le campagne di stampa ostili, le sommosse di piazza sono solo fatti di cui le autorità politiche in carica tengono conto come meglio credono. Mi sembra che sia piuttosto la dottrina che non la realtà politica vissuta che si dimostri inadeguata, perché apparentemente incapace di inquadrare i processi costituzionali reali, che peraltro – e non è secondario – non mi sembrano contestati come non conformi. Secondo me, una volta tanto, tutto è andato nel pieno rispetto delle previsioni della costituzione che per fortuna regola solo l’indispensabile e lascia il resto agli uomini investiti dei poteri pubblici. Ma sono forse troppo ignaro della scienza costituzionale italiana per capire altre distinzioni più precise, più pertinenti, più profonde.

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