Chi ha paura del popolo? Perché il PD dovrebbe promuovere il referendum sul taglio dei parlamentari. Un’opinione controcorrente

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di Marco Antonio Simonelli*

Mentre pensavo a momenti storici simili al voto di martedì 8 ottobre, con il quale la Camera ha dato via libera alla modifica degli Articoli 56 e 57 della Costituzione, mi sono venuti in mente solo parlamenti codardi che si sono spogliati dei propri poteri in favore di dittatori e caudilli. Azzardare simili accostamenti sarebbe fuori luogo, ma la legge di revisione costituzionale appena licenziata è sicuramente un singolarissimo caso di automutilazione parlamentare. Con appena 14 voti contrari, la Camera ha di fatti approvato la riduzione del numero di parlamentari elettivi che passa da 945 a 600 (400 deputati e 200 senatori). Giova ricordare come il PD avesse, nei primi tre passaggi in aula, votato contro il testo. Al netto delle rassicurazioni di Zingaretti sull’esistenza di un accordo con Di Maio sulle ‘riforme contestuali’, principalmente una nuova legge elettorale e la modifica dei regolamenti parlamentari, è fuor di dubbio che la riforma sia stata una condizione imposta dai 5 Stelle per la formazione del governo. Il PD, novello Esaù, ha venduto la primogenitura (leggi Costituzione), per un piatto di lenticchie, ossia un governo dal fiato corto.

Invero, l’idea che il consenso ad una modifica costituzionale possa essere frutto non di una profonda convinzione circa la necessità di un adattamento alla realtà sociale della carta fondamentale, ma di un meschino calcolo politico; la degradazione della Carta fondamentale da norma suprema ad oggetto disponibile dalla maggioranza di turno (un regolamento di condominio Calenda dixit); l’aver scambiato la Costituzione con una poltrona da sottosegretario, con la riconquista del potere, con la frenata della resistibile ascesa del Capitano, sono una ferita al concetto stesso di Costituzione a serio rischio di infezione. Che ciò sia avvenuto con il contributo del Partito Democratico, a cui molti guardano come unico argine al dilagare del populismo in Italia, rende la situazione grottesca.

 

A questo punto, l’unico ostacolo all’entrata in vigore della riforma è l’eventualità che venga richiesto un referendum costituzionale. Ad oggi, il solo parlamentare ad avere detto di volere chiedere un referendum è il renziano di ferro Roberto Giachetti. Il Partito Democratico per adesso tace. Eppure è necessario che il PD si esponga in prima linea nel chiedere un referendum sul taglio parlamentare, non tanto con l’obiettivo di bloccarne l’entrata in vigore, con i necessari correttivi il taglio potrebbe avere un impatto sostanzialmente neutro sull’assetto istituzionale, quanto per il suo significato intrinseco.

 

Un luogo comune, certo non del tutto infondato, è che il referendum del 4 dicembre 2016 sia stato in realtà un plebiscito sulla figura di Renzi. Tuttavia la campagna referendaria vide la partecipazione attiva di tutta la società civile italiana. Costituzionalisti, magistrati e figure pubbliche di ogni tipo aprirono un dibattito sul merito della riforma, cercando di rendere comprensibili ad un pubblico generale temi e questioni eminentemente tecniche. Il dato dell’affluenza, che si attestò intorno al 65%, sta a dimostrare come il dibattito avesse catturato l’attenzione della cittadinanza, risvegliando un patriottismo costituzionale del tutto sconosciuto in Italia, Benigni escluso.


Sembra passata un’era geologica, ma allora una parte del PD trovò il coraggio, chissà anche spinta da un poco nobile motivo come l’astio per Renzi, di schierarsi contro una riforma che, come quella di oggi, prometteva di ridurre i costi di funzionamento delle istituzioni e una semplificazione dei processi decisionali. Una decisione apparentemente impopolare motivata con la necessità di difendere la Costituzione, che si rivelò un successo. Oggi il PD, possibilmente compatto, è chiamato a fare lo stesso. Innanzitutto per assolvere all’obbligo morale di cancellare la pericolosa impressione che una modifica della Costituzione sia un atto di ordinaria amministrazione, giustificabile con una banale finalità di contenimento dei costi della politica. Ma soprattutto perché, riponendo la propria fiducia in una partecipazione consapevole dell’elettorato, espressa attraverso le forme costituzionali, e con la promozione di un dibattito pubblico, praticamente assente fino ad oggi, il PD avrebbe la possibilità di combattere il populismo con le sue stessi armi e di dimostrare di non avere paura del popolo.

* Research Fellow on Constitutional Democracy - Universitat de Barcelona 

 

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2 commenti su “Chi ha paura del popolo? Perché il PD dovrebbe promuovere il referendum sul taglio dei parlamentari. Un’opinione controcorrente”

  1. Perché non è possibile – nemmeno solo all’interno del PD – dibattere razionalmente della riduzione del numero dei parlamentari? Pesa ovviamente l’accordo semi-occulto per formare la coalizione. Ma c’è un ostacolo più pesante: non aver discusso, chiarito, sanzionato, digerito e superato l’impresa temeraria e fallimentare del referendum istituzionale (costituzione e legge elettorale!), le cause del fallimento, gli errori del progetto, soprattutto quelli di merito, senza lasciarsi distrarre dagli evidenti errori tattici, politici e comunicativi. Che cosa non andava bene in quella riforma, probabilmente accettabile al 80% da un’opinione pubblica quasi unanime? Risposta: la legge elettorale abusiva, manipolatrice e liberticida e la riforma zoppa, ambigua, imperfetta del Senato. Cioè il cuore della democrazia, dei diritti politici e del potere rappresentativo. Invece tutti stanno zitti, i contrari alla riforma per trionfalismo fuori luogo, i favorevoli per incapacità di autocritica. Posso dire che tre mesi prima della data fatica ho previsto in un articolo “la catastrophe“ imminente in qualsiasi ipotesi di risultato. Questa è la causa profonda della riduzione in teoria poco rilevante dei parlamentari. Ma in mancanza di un dibattito razionale, aperto e generale circa una vera riforma delle istituzioni l’automutilazione cinica (secondi fini meschini) e codarda (non dire la verità è votare di conseguenza) a maggioranza bulgara del Parlamento sarà un ulteriore passo nel inesorabile degrado delle istituzioni fondate sul “la più bella costituzione del mondo”. Non il referendum ma la verità, il comportamento retto e il coraggio politico e individuale sono gli antidoti a questo gioco al massacro. Merce rara.

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  2. Al Lussemburgo si discute -pubblicamente, con pareri pubblici di vari organi e organizzazioni, con un dibattito aperto al pubblico, con un referendum d’iniziativa della maggioranza su alcuni punti ritenuti importanti peraltro tutti rigettati dagli elettori – da circa QUINDICI anni della revisione costituzionale più profonda dal 1864 a parte forse la revisione e i referendum del 1919. Con il passare del tempo diverse maggioranze politiche, tutte delle coalizioni, hanno promosso la riforma, ma sempre nella stessa direzione. La legge elettorale lussemburghese- sulla quale sto preparando una monografia che suggerisce una determinata riforma – è (quasi) la stessa da esattamente 100 anni. Nel 1919 è stato adottato assieme al suffragio universale un sistema proporzionale di lista in quattro circoscrizioni e con voto preferenziale multiplo: ogni elettore può votare tanti candidati quanti ci sono seggi nella sua circoscrizione; è permesso il cumulo e il panachage, un po’ come in Svizzera dove il modello è stato inventato (1864 Ernest Naville, Ginevra), adottato attraverso il referendum nel 1919 e rimasto in vigore fino ad oggi. In Lussemburgo e in Svizzera il sistema è sopravvissuto all’affermazione dei regimi autoritari negli anni 1920 e 1930, alla guerra (con occupazione e successiva annessione poi liberazione dagli alleati per il Lussemburgo) e all’affermazione più recente dei populismi di entrambe sponde. L’Italia aveva nel 1919 un sistema non troppo dissimile, che è durato pochi anni, ma è stato rispolverato dopo la seconda guerra. Gli abusi dei governanti non i difetti intrinseci l’hanno discreditato begli occhi degli elettori. Dopo il referendum del 1993 e l’adozione di un altro modello altrettanto idoneo (se non fosse stato “corretto” da una quota di proporzionale a liste bloccate, erano quelle che contavano) l’Italia ha perso la bussola, prima con una legge più abusiva della “legge truffa” degli anni 1950, poi dopo la sentenza 1/2014 con modelli sempre più manipolati che fanno rabbrividire gli osservatori in tutti i paesi. Fin quando in materia elettorale non si dice la verità, tutta la verità, non si combinerà nulla di buono e alla fine il paese ingovernabile sarà governato dall’estero. Senza pulizia epistemica nessun referendum può salvare la fragile, zoppicante, inefficiente e in parte finta democrazia italiana.

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