Ho ben chiaro che, ancora una volta, si voterà su di un referendum costituzionale, che affronta in sé una questione niente affatto banale (la riduzione del numero dei parlamentari elettivi: si dovrebbe passare da seicento a quattrocento deputati e da trecentoquindici a duecento senatori), attratti da “altro” rispetto alla posta messa in gioco dalla riforma, votata in questa legislatura dapprima dalla maggioranza governativa gialloverde senza il PD ( il che ha impedito il conseguimento della maggioranza dei due terzi, aprendo la strada al referendum popolare) e successivamente – nell’ultima votazione alla Camera – dalla coalizione giallorossa con il PD e con la Lega (ottenendosi una maggioranza amplissima), nel frattempo estromessa(si) dalla responsabilità di governo. Lo stesso modo con il quale sono state ottenute le sottoscrizioni dei senatori, al fine di rendere possibile lo svolgimento del referendum (occorre, come è noto, rappresentare un quinto dei membri di una delle due Camere), è sembrato poco consono alla serietà dell’intento in una girandola di firme prima apposte, poi cancellate ed infine rimpiazzate con nuovi apporti di natura puramente tattica.
Adesso che il referendum è stato indetto, sento ragionare di esito scontato del voto, favorevole alla riforma, così che sarebbe inutile battersi per contrastare la deliberazione parlamentare eperciò tutto sommato poco conveniente impegnarsi su di una questione oltretutto avvertita – sbagliando – di non particolare rilievo istituzionale da gran parte della pubblica opinione. In ambiti e sedi di irriducibile elitarismo si avverte la necessità opposta di contrastare comunque fino in fondo una scelta, considerata demagogica, che alimenta ulteriormente l’idea assai diffusa che l’istituzione parlamentare, per quel poco che fa e anche male, merita un “taglio”, dal quale scaturirebbe oltretutto un modesto risparmio per le non floride casse dello Stato senza alcuna garanzia di qualità di coloro i quali saranno chiamati ad assolvere la funzione rappresentativa.
Sento altresì parlare di coerenza e incoerenza da parte delle forze politiche nell’avere portato a compimento o contrastato nelle aule parlamentari la riforma in questione e, ovviamente, giungono echi di riforme elettorali che dovrebbero accompagnare “logicamente” la riduzione degli eletti e, ça va sans dire, di contrasti fuori e dentro l’area della maggioranza di governo, nel mentre il legislatore si è già portato avanti e ha sostanzialmente adattato il sistema attuale, il Rosatellum, all’entrata in vigore della riforma, salva la ridefinizione dei collegi affidata con delega al Governo che, in effetti, sta procedendo senza impicci parlamentari.
Nel pieno dell’ennesima pantomima tra forze politiche di maggioranza, tra Il Presidente del Consiglio e qualche leader alleato, tra “responsabili” eventualmente pronti a consentire la prosecuzione dell’attività del Governo in carica, tra rese dei conti interne a questo e a quel movimento, tra nuove prospettive di questa o quell’area politica, tra nuovi e prossimi appuntamenti elettorali sempre considerati “decisivi” per la sorte dell’Esecutivo e/o di questo o quel capo politico, e pur essendo chiaro a tutti che le elezioni anticipate non sembrano essere alle porte per note ragioni (la principale delle quali è il mantenimento dello status di parlamentare per molti deputati e senatori in carica che probabilmente non sarebbero rieletti a maggior ragione ove fosse approvata la riforma de qua), resta da chiedersi come è possibile tornare seriamente a ragionare – nel Paese e non tra pochi e in verità sempre più sfiancati addetti ai lavori – del significato della rappresentanza parlamentare nella nostra democrazia e della rappresentatività degli organi parlamentari con riguardo tanto ai territori quanto alla effettiva individuazione degli eletti da parte degli elettori coinvolti.
Forse allora si potrebbe almeno evitare di snobbare l’appuntamento referendario del prossimo 29 marzo, tanto più se si pensa di avere qualcosa da dire sulla “sostanza” democratica degli interessi coinvolti.
Questo in effetti non è solo, almeno a mio avviso, un referendum nel quale si ha la possibilità di dare una “legnata” alla “casta politica” italiana avendo così l’occasione di ribadire il “discredito” che da tempo gli elettori – in un modo o nell’altro – dimostrano di nutrire nei confronti dei loro rappresentanti (e governanti) ma, più freddamente, una casuale eventualità nella quale il Paese – senza alcun quorum – è posto nelle condizioni di ragionare su una riforma-bandiera, apparentemente neutra rispetto al ruolo dell’istituzione parlamentare, che ci interroga non tanto sulla “sufficienza numerica” di deputati e senatori a svolgere il loro ruolo quanto sul trarre o meno un vantaggio istituzionale circa il miglioramento “a monte” della certamente insufficiente, guardando all’oggi, capacità rappresentativa di Camera e Senato.
Sì o no per coloro i quali andranno a votare il prossimo 29 marzo con la consapevolezza di dovere esprimere una scelta meditata che proprio questa “classe politica” così palesemente inadeguata gli ha offerto, lisciando astutamente ma scopertamente il pelo dello scontento popolare, dovrebbero corrispondere a due punti di vista opposti sulla possibilità effettiva della riforma di rilanciare la qualità preliminare che il Parlamento italiano ha drammaticamente smarrito da tempo: la sua “anima democratica”.
Condivido l’analisi interamente. Evidenzio un argomento che sembra marginale ma è essenziale e aggiungo due considerazioni. La prima: non è detto che a prescindere della vicenda discussa la riduzione dei parlamentari da 945 a 600 sei una cattiva idea. E non è vero che il numero dei rappresentanti eletti in una democrazia rappresentativa debba dipendere dalla dimensione della popolazione elettorale. La seconda: indipendentemente dall’esito del referendum la democrazia italiana sarà ancora più fragile dopo, a meno di dimenticare immediatamente in caso di successo del no che il popolo sovrano si è espresso contro una riforma del parlamento bicamerale perfetto e omogeneo di quasi mille eletti. L’inciso che vorrei mettere in evidenza è la frase un po’ fuori tema circa “l’individuazione effettiva degli eletti dagli elettori.“ È questo il punto più debole della rappresentanza politica. Il referendum Segni ha abolito le preferenze multiple, ma non la scelta individuale come tale. La legge Mattarella ha compiuto il primo passo per un quarto dei deputati, la legge Calderoli ha compiuto l’opera della partitocrazia perfetta. Nessuna della leggi elettorali successive ha più messo in questione questa conquista. La Corte costituzionale ha condizionatamente approvato la clamorosa restrizione delle libertà politiche più elementari. La dottrina si giuridica è persa in argomenti di scienze politiche o più spesso in argomenti compiacenti agli attori politici beneficiari delle restrizioni abusive. E poi ci lamentiamo che un movimento improvvisato vi contrappone una sua democrazia privata? Io sono stato (Forse o quasi) l’unico in questo paese a denunciare questa aberrazione sin dal principio (forum costituzionale articolo critico della 1/2014). Altri interventi miei sono stati osteggiati dalla lobby dei cattedratici. La situazione attuale è anche e soprattutto colpa vostra!
Sono stati pubblicati 89 suoi interventi, signore. non proprio osteggiato, le pare?
I miei articoli, a parte il primo sulla 1/2014, appoggiato da un professore di diritto costituzionale poi nominato alla Corte costituzionale, e pubblicato “per errore” sul forum dei quaderni costituzionalI, sono stati rifiutati su questo Blog, da lei in persona, dopo che il caporedattore mi aveva risposto che il pezzo corrispondeva esattamente quello che LaCostituzione.it cercava. In seguito altre riviste mi hanno chiuso le porte per ragioni sulle quali non intendo indagare. Un commento non equivale alla pubblicazione di un articolo. Ma non mi arrendo. Intanto ho pubblicato un libro “comment réformer la loi électorale?” Legitech, 2019, altrove dove la ricerca giuridica in materia elettorale e costituzionale è libera.