Non si può dire, ma gli Eurobond sono già sul tavolo. Ma è una parola tabù

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di Piero Cecchinato

Bisogna andarci piano con le parole, perché in un’Unione europea che poggia ancora sul metodo intergovernativo, ciascun governo deve fare i conti con l’opinione pubblica interna e le pressioni delle opposizioni. Angela Merkel deve tenere a bada le spinte conservatrici e quelle nazionaliste fomentate dagli amici della Lega di AfD, che dei debiti italiani non ne vogliono sentir parlare, passati, presenti o futuri che siano. Mark Rutte adesso ha l’alibi di doversi attenere alla deliberazione del Parlamento olandese, che ha detto no a qualsiasi forma di mutualizzazione del debito.

“Eurobond” quindi non si può dire. Ma, a ben vedere, gli Eurobond erano già sul tavolo ancor prima della risoluzione del 16 aprile, con la quale il Parlamento europeo ha chiesto un massiccio intervento per la ripresa, che includa anche l’emissione di obbligazioni comuni (c.d. “Recovery bond”) garantite direttamente dal bilancio dell’Ue.

1. Il progetto della Commissione Ue del 2011. La prima discussione concreta sulla creazione di titoli di debito comune, emessi dall’Unione europea ad un tasso di interesse unico, da commisurarsi all’affidabilità creditizia di tutti i Paesi membri messi assieme, risale ad un Libro verde della Commissione europea del 23 novembre 2011.

Nel progetto delineato dalla Commissione, gli Eurobond avrebbero assunto il nome di “Stability bond”, in quanto destinati ad alleviare le tensioni finanziarie sui titoli dei singoli Paesi e a stabilizzare, così, l’intera euro area. Uno strumento da non introdursi “alla fine di un processo di convergenza economica e fiscale, bensì parallelamente a processi di maggiore convergenza, favorendone così il quadro necessario”. Un approccio molto ambizioso per stessa ammissione della Commissione, perché avrebbe richiesto un “avanzamento immediato e decisivo nel processo di integrazione economica, finanziaria e politica all’interno dell’euro area”.

L’emissione di tali titoli avrebbe dovuto essere centralizzata in un’unica agenzia o venire delegata a livello nazionale in stretto coordinamento tra gli Stati membri. La distribuzione dei fondi raccolti, poi, sarebbe intervenuta sulla base delle rispettive quote di partecipazione a ciascuna emissione dei singoli Paesi. In ogni caso, stando alle stime del Libro verde, il tasso scontabile da simili titoli sarebbe stato migliore di quello sopportato dall’Italia sui propri titoli di debito, ma peggiore di quello scontato dai bond tedeschi.

 

2. Gli Eurobond sono già sul tavolo oggi. Da allora il dibattito sugli Eurobond si è arenato nel pantano della crisi economica del 2008 e di quella dei debiti sovrani del 2011. Il peggioramento dei conti italiani e l’aumento del debito pubblico dei Paesi del Sud Europa, rispetto al maggior rigore mantenuto da quelli Nord (informalmente riunitisi in quella che è stata chiamata nuova lega anseatica), ha definitivamente reso tabù qualsiasi forma di mutualizzazione dei debiti nazionali.

Alle riserve serbate dai governi del Nord Europa, si è opposto il Parlamento europeo con la risoluzione del 16 aprile, con la quale si è richiesto un massiccio intervento economico di sostegno alla ripresa, che comprenda anche l’emissione di obbligazioni comuni (c.d. “Recovery bond”), garantite direttamente dal bilancio dell’Ue.

Così concepiti, in quanto insistenti direttamente sul budget a disposizione della Commissione, questi bond risulterebbero al più alto grado di sovranazionalità che si possa ipotizzare oggi.

A ben vedere, però, seppur nei limiti della costruzione istituzionale dell’Ue, degli Eurobond sul tavolo c’erano già. Il programma da 100 miliardi di sostegno alla perdita di reddito da lavoro denominato Sure (acronimo di Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, ossia supporto contro il rischio di disoccupazione) proposto all’inizio del mese si finanzia infatti con titoli di debito comune emessi dalla Commissione Ue.

Secondo quanto illustrato direttamente da Ursula Von der Layen, si tratterebbe di un supporto economico per lavori di breve durata nella fase di ripresa, che sarà progressiva e quindi a velocità inizialmente ridotta. Per stare alle stesse parole della Presidente, si tratta di una misura che può mitigare gli effetti della recessione, mantenere le persone al lavoro e consentire progressivamente alle aziende di tornare sul mercato. Per finanziare un simile programma e supportare le imprese nei pagamenti dei salari, la Commissione emetterebbe titoli obbligazionari con rating molto alto garantiti dagli Stati membri, girando poi a questi ultimi i fondi ottenuti mediante prestiti vantaggiosi da rimborsare a lungo termine.

Anche il famigerato ESM si finanza di regola sul mercato emettendo titoli di debito a tassi di favore con la garanzia sottostante degli Stati membri, che ne detengono le quote. Allo stesso modo (emissione di bond unitari garantiti da tutti gli Stati e a tassi inferiori dei Btp italiani) si finanzierebbe anche la nuova linea di credito da 240 miliardi da destinare ai singoli Stati per la copertura dei costi sanitari diretti e indiretti provocati dall’emergenza, senza altre condizioni.     

Infine, anche il programma da 200 miliardi per finanziare i costi della ripartenza economica messo in campo dal Consiglio europeo tramite la BEI si finanzia emettendo titoli di debito comune.

La Banca Europea degli Investimenti (un po’ l’equivalente della nostra Cassa depositi e prestiti), è un veicolo di finanziamento partecipato da tutti gli Stati membri (Italia, Germania e Francia in testa, con una quota che vale 46 miliardi e 722milioni ciascuna). Assume prestiti sui mercati dei capitali emettendo titoli di debito garantiti dagli Stati, e poi eroga a sua volta prestiti a condizioni favorevoli per progetti che sostengono gli obiettivi dell’UE. Circa il 90% dei prestiti viene erogato all’interno dell’UE. Nell’ambito della crisi, i Paesi membri le daranno il mandato di raccogliere 200 miliardi sul mercato da destinare poi alla ricostruzione economica post crisi.

Nel complesso ancora poco? Se ci mettiamo anche la sospensione del patto di stabilità e crescita risalente al Trattato di Maastricht e l’impegno della BCE ad acquistare titoli di debito nazionale per un ammontare di 750 miliardi nell’ambito del PEPP, Pandemic emergency purchase programme, il nuovo programma di quantiative easing che privilegerà proprio i titoli dei Paesi più in difficoltà, non possiamo, onestamente, dire di trovarci di fonte a qualcosa da poco.

In due interventi piuttosto celebri Robert Schuman – uomo che ci vedeva lungo – preavvertì che l’Europa si sarebbe potuta fare solo un passo alla volta. “L’Europa non nascerà di getto, come città ideale. Essa si farà, anzi si sta già facendo, pezzo per pezzo, settore per settore” (Discorso inaugurale alla Conferenza per l’organizzazione dell’esercito europeo, Quai d’Orsay, Parigi, 15 febbraio 1951). “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Dichiarazione di Schuman, 9 maggio 1950).

Al di là della propaganda, sul tavolo oggi si stanno delineando soluzioni concrete.

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