La democrazia non abita in cantina

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di Roberto Bin

In vista delle prossime elezioni amministrative sta diventando di grande attualità il problema di come si scelgano i candidati alla carica di sindaco e di presidente di Regione. Le leggi elettorali affidano al voto diretto dei cittadini la scelta di chi guiderà l’amministrazione comunale o regionale: gli elettori troveranno il nome del candidato sulla scheda elettorale, accanto ai simboli del partito o della coalizione che lo ha scelto. Ma come è stato scelto?

Le leggi nulla ci dicono in proposito, il metodo è lasciato alla libera volontà dei partiti che di solito la disciplinano nei rispettivi Statuti. Alcuni optano per il sistema delle primarie: così Fratelli d’Italia e il Partito democratico. Lo Statuto di quest’ultimo è particolarmente ricco di regole a tal riguardo: «Il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico, l’elezione delle più importanti cariche interne, la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali» (art. 1.5). La regola fondamentale che guida le candidature è dunque questa: la scelta dei candidati non è affare interno del partito, e neppure dei suoi iscritti: ma dei suoi elettori. Più in là nello Statuto (art. 24) si dice che «i candidati alla carica di Sindaco e Presidente di Regione vengono scelti attraverso il ricorso alle primarie di coalizione», oppure, dove coalizione non ci sia, «con le primarie di partito». Se c’è coalizione, si può concordare un diverso metodo di scelta del candidato, ma occorre l’approvazione «dei tre quinti dei componenti dell’Assemblea del livello territoriale corrispondente». Le primarie possono essere “saltate” solo quando sia stata individuata un’unica candidatura, di partito o di coalizione (comma 7). Ma poi la disciplina si fa un po’ oscura.

In questi giorni la questione è esplosa a Bologna, in vista delle prossime elezioni del Sindaco. Gli organismi dirigenti del partito hanno svolto “ampie consultazioni” della base e hanno deciso di non affrontare le primarie, che sarebbero rese difficili dal covid, preferendo trattare al proprio interno per cercare di raggiungere una candidatura unica. Di conseguenza lotte intestine segrete – o quasi – stanno svolgendosi attorno al problema della scelta del candidato e, naturalmente, della coalizione che dovrebbe sostenerlo. La discussione sui programmi può aspettare.

Un giornale locale on-line – Cantiere Bologna – ha deciso di lanciare un appello in cui si invita il PD a rispettare la regola statutaria delle primarie: in un paio di giorni ha raggiunto centinaia e centinaia di sottoscrizioni. Ma soprattutto ha suscitato le infastidite reazioni della nomenclatura del PD locale, che ha accusato i promotori (tra cui vi è anche chi scrive) di favorire uno specifico candidato, evidentemente non gradito dai dirigenti del partito. La polemica si è fatta molto accesa. Anche le “sardine” – che a Bologna hanno una delle loro “tane” – sono intervenute a sostegno dell’opportunità delle primarie.

L’episodio, benché locale, merita di essere segnalato, anche perché Bologna è stata spesso alla guida di movimenti destinati a prendere piede nella politica italiana. Ma soprattutto perché pone in evidenza che la democrazia non può essere affare da cucinare in cantina. La sua pietanza è servita – dopo le elezioni – con i guanti bianchi, in saloni splendidi, illuminati da lampadari sfarzosi, nei palazzi dove risiedono le istituzioni democratiche; ma la pietanza, le scelte che mettono in moto le elezioni, è cotta in cantine buie e misteriose, ove nessuno può mettere il naso. Il grande passo che aveva fatto il PD, sin dai tempi di Prodi, era stato quello di aprire porte e finestre della cucina, affidando la scelta delle candidature, non alle sezioni o alle assemblee degli iscritti al partito, ma alle sue “elettrici ed elettori”. Un passo enorme nel verso della partecipazione democratica.

Le primarie non possono essere viste come un noioso adempimento burocratico. Il PD ha fatto della difesa della legalità il suo vessillo, ed è quindi necessario che le regole scritte nel suo Statuto le rispetti anche al suo interno: come è scritto, il PD affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali. Non agli iscritti, ma agli elettori! Perciò le primarie sono un enorme fatto politico. È il modo con cui si coinvolge l’intero elettorato nella scelta del candidato, consentendo a chi vuole scendere in lizza di esporre e discutere il proprio programma.

Certo, organizzare le primarie è un impegno pesante e faticoso, ma è quello che distingue una politica seria dallo show televisivo a cui la politica italiana si è assuefatta. Non fare le primarie è rinunciare a fare politica seria e ripiegarsi al solito giochino che si svolge nelle segrete stanze. Perciò è giusto che chi crede in una politica che non si riduca ad un dibattito televisivo chieda a gran voce quello che la Costituzione gli riconosce come un diritto: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, scrive l’art. 49 Cost. I partiti non sono un fine, ma uno strumento per l’esercizio di un nostro diritto costituzionale – il diritto di partecipazione politica di noi elettori.

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2 commenti su “La democrazia non abita in cantina”

  1. Non intendo criticare l’articolo interessante e convincente del prof. Bin, ma proverò a collocare il problema concreto (che riguarda il partito probabilmente più strutturato con l’organizzazione interna più democratica del paese, descritta da A. Floridia in Il partito sbagliato, Lit ed. 2019) in un contesto teorico più ampio. Le primarie sono UN RIMEDIO PRIVATO ad un’inadeguatezza della normativa elettorale democratica. Sono private nella misura in cui sono organizzate da libere associazioni politiche, partiti o coalizioni di partiti, comunque gruppi di elettori e candidati alle candidature. Se le primarie sono pubbliche e obbligatorie, imposte dalla legge, esse fanno infatti parte della normativa positiva. Se possibile, converrebbe scegliere una procedura elettorale conforme e completa che non abbia bisogno di rimedi privati. Esistono procedure elettorali (sia per cariche monarchiche che per assemblee rappresentative, in quel caso sia attraverso collegi uninominali sia attraverso circoscrizioni più o meno ampie) che non necessitano la selezione preliminare dei candidati. Quali sono? Una procedura democratica completa e conforme permette a tutti gli elettori di scegliere fra tutti i candidati (ammissibili, condizioni di firme considerate lecite benché restrittive) facendo dipendere il risultato unicamente dalle preferenze degli elettori. La preferenza elettorale fra più di due candidati non può essere utilmente gestita con una scelta secca (come con il First past the post) né con una divisione degli elettori in gruppi (come nei sistemi a riparto proporzionale per liste), ma suppone UNA SCELTA ORDINALE che classifica i candidati in ordine di preferenza. L’uninominale secca è una semplificazione; il sistema proporzionale di lista una complicazione e restrizione non necessaria. Entrambi esigono per natura un sistema di preselezione, delle primarie o una procedura di designazione meno democratica. Nonostante i rischi marginali di circolarità del risultato collettivo (paradosso di Condorcet, teorema di Arrow) esistono procedure di voto ordinale che permettono di condurre sempre a un vincitore certo, o al numero stabilito di vincitori. Le procedure elettorali conformi ai requisiti democratici sono quelle del RANKED CHOICE, del voto di classifica ordinale, utilizzabile in ambito presidenziale e assembleare. Gli Americani parlano di run-off; distinguono fra procedura sfasata nel tempo (p. es. il doppio turno, o ev. più turni) e instant run-off (che per ottenere l’elezione a maggioranza assoluta elimina i meno votati e riconta con i voti subordinati). In teoria ci sono 4 possibilità, due per l’uninominale e due in ambito plurinominale. In ambito uninominale questa soluzione è difesa da FAIR VOTE un’organizzazione creata e patrocinata da accademici conosciuti. Manca, negli Stati Uniti, la parte plurinominale indispensabile per eleggere “proporzionalmente” un’assemblea rappresentativa. Perciò in Europa si preferisce, con poche eccezioni (F, IRL, M), seguire un’altra logica, quella dell’elezione proporzionale di liste (libere o bloccate), che tornando al concetto di divisione crea una restrizione, risentita e riconosciuta da tutti e che appunto le primarie private di partito intendono superare. In teoria e in pratica sarebbe comunque possibile eleggere, con metodo e risultato proporzionale, in circoscrizioni senza liste e senza necessità di primarie, come il modello irlandese illustra. Condorcet, il fondatore di questa scuola di pensiero, aveva invece proposto un sistema plurinominale con due turni di voto, il primo completamente aperto, di preselezione, il secondo di elezione riservato a un numero di candidati tre volte quello dei seggi, un voto ordinale e un’assegnazione dei seggi a maggioranza assoluta. I classici della teoria elettorale, fino a Mill, Hare, Droop, D’Hondt e Hagenbach-Bischoff, ragionavano sempre nella logica inventata da Condorcet. Dopo l’introduzione generale dei sistemi proporzionali di lista, dal 1919 in avanti, QUESTA CONOSCENZA SI È PERSA per riapparire in versione ridotta negli USA (Arrow, Fair vote). In Europa la maggior parte dei paesi si è abituata ai sistemi proporzionali di lista che preferiscono correggere i difetti con primarie piuttosto che rinunciare alla logica delle liste.

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  2. Da 15 giorni è bloccato un mio commento al questo articolo. Si tratta di una riflessione teorica sulla definizione e sulla natura profonda delle primarie, quindi di un’analisi sommaria della procedura elettorale democratica.

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