La recente sentenza n. 54 del 27 gennaio 2021 del Tribunale di Reggio Emilia, sezione Gip-Gup, è prontamente finita sotto i riflettori in ragione delle motivazioni nelle quali, per la prima volta, si afferma espressamente l’incostituzionalità dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) recanti misure volte a contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19. Si tratta di una decisione che, pur affrontando un tema fortemente dibattuto – la legittimità costituzionale delle misure di contenimento adottate nell’ultimo anno – appare deludente e poco significativa per le debolezze e le carenze dell’iter argomentativo seguito.
Anzitutto, i fatti. La sentenza giunge a conclusione di un procedimento nel quale il Gip del capoluogo emiliano, in camera di consiglio, si è pronunciato sulla richiesta di emissione di un decreto penale di condanna avanzata dal pubblico ministero nei confronti di due donne, alle quali veniva contestato il delitto di falso ideologico di cui all’art. 483 del codice penale. Esse, in vigenza delle restrizioni disposte dal DPCM 8 marzo 2020, erano state sottoposte a controllo da parte dei Carabinieri di Correggio ed avevano autocertificato di trovarsi al di fuori della propria abitazione in quanto recatesi presso l’ospedale della medesima cittadina per sottoporsi ad esami clinici (la seconda persona accompagnava la prima). Senonché, il personale del Comando dei Carabinieri di Correggio aveva successivamente accertato che l’interessata quel giorno non aveva fatto alcun accesso presso l’ospedale indicato, pertanto non aveva svolto alcuna visita medica ed aveva conseguentemente dichiarato il falso. Il Gip di Reggio Emilia, tuttavia, ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti delle due donne per il reato ascritto in quanto il fatto non costituisce reato, a motivo della rilevata illegittimità costituzionale della norma che ha disposto le restrizioni.
Appare opportuno ripercorrere l’iter argomentativo attraverso cui il giudice giunge a sancire l’illegittimità dell’atto, in quanto le motivazioni appaiono alquanto sconcertanti. Secondo il Gip, infatti, il DPCM 8 marzo 2020, nel disporre misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, quali in particolare il divieto di spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori interessati, nonché all’interno dei medesimi territori, se non per comprovate esigenze di lavoro, necessità o salute, avrebbe disposto una limitazione della libertà personale, tutelata ai sensi dell’art. 13 della Costituzione. Detta disposizione, segnatamente, avrebbe stabilito un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configurando un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Si tratterebbe, a tutti gli effetti, di una sanzione penale restrittiva della libertà personale, assimilabile alla detenzione domiciliare – o alla misura cautelare della custodia presso il proprio domicilio – la quale può essere disposta esclusivamente da un giudice, nei soli casi previsti dalla legge, e comunque previo procedimento giurisdizionale che assicuri il diritto alla difesa dell’imputato.
In altre parole, secondo il Gip di Reggio Emilia una simile restrizione della libertà personale necessiterebbe di due precondizioni: una norma di legge che la preveda, nel rispetto della riserva assoluta di legge di cui all’art. 13 della Costituzione, e un giudice che la disponga, in ossequio alla riserva di giurisdizione di cui al medesimo art. 13. In ciò residuerebbe l’illegittimità delle misure di contenimento disposte dal governo: esse difettano di entrambi i presupposti, in quanto sono state previste da un regolamento – il richiamato DPCM 8 marzo 2020, fonte secondaria – e non sono disposte dal giudice, il cui intervento non è stato previsto dalla norma.
Sul punto occorre soffermarsi un attimo. Come si può notare, il giudice non si limita affatto a sancire l’illegittimità delle misure restrittive, in quando disposte da fonte secondaria e quindi in violazione della riserva assoluta di legge, ma va ben oltre, dal momento che imputa tale incostituzionalità anche all’assenza di intervento del giudice. Nelle motivazioni, segnatamente, si precisa non soltanto che «un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge», ma si aggiunge che «neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, posto che l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto, in osservanza del dettato di cui al richiamato art. 13 Cost».
Ne consegue che le norme in oggetto, costituzionalmente illegittime, vanno disapplicate dal giudice stesso in quanto di rango secondario. Venendo quindi a cadere la limitazione al diritto costituzionale, viene meno anche l’obbligo di autocertificare le ragioni dello spostamento e diventa priva di effetti penalmente rivelanti la dichiarazione resa alle forze dell’ordine, ancorché falsa. In altre parole, il fatto non costituisce reato e ciò giustifica il non luogo a procedere dichiarato dal giudice.
Le motivazioni qui brevemente riassunte non sono condivisibili, sia per le conclusioni cui giungono sia per l’iter argomentativo che le supporta.
Una prima ragione attiene al passaggio nel quale il giudice confonde la libertà personale, di cui all’art. 13 della Costituzione, con la libertà di circolazione e soggiorno, di cui all’art. 16, o se si preferisce confonde una sanzione penale comminata da un giudice a seguito di un procedimento penale con una mera limitazione della libertà di circolazione e soggiorno dovuta a ragioni di carattere sanitario. Le misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica, adottate sin dai primissimi provvedimenti del febbraio 2020, sono infatti considerate come limitazioni stricto sensu alla libertà personale, laddove invece la dottrina propende per una chiave di lettura ben diversa, che investe principalmente – sebbene non esclusivamente, essendovi coinvolti tra l’altro il lavoro e le libertà di impresa – le libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.) e di riunione (art. 17). A tal proposito, il giudice si sofferma brevemente sul punto, limitandosi ad escludere, quasi apoditticamente, che le misure possano considerarsi mere limitazioni dei diritti qui richiamati. Nelle motivazioni, infatti, si evidenzia che «i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone allora la limitazione si configura come vera e propria limitazione della libertà personale». Il ragionamento appare fortemente discutibile in quando il giudice sembra non tenere in minima considerazione le numerose eccezioni: pur in vigenza delle misure, i cittadini sono sempre liberi di uscire dal proprio domicilio per andare a lavorare, per fare una visita medica, per andare a fare la spesa, per comprare un giornale, per portare a passeggio un animale domestico, per andare a comprare cibo da asporto o beni di consumo, per andare dal parrucchiere o dall’estetista, per andare a fare una passeggiata, a correre e molto altro ancora. Chi lavora in una regione diversa da quella di residenza può anche viaggiare per rientrare presso la propria dimora abituale. Come si possano equiparare tali condizioni a quelle di un cittadino colpito da provvedimenti restrittivi della libertà personale disposti dal giudice, per effetto di una sentenza irrevocabile di condanna o per motivi cautelari, non è ben chiaro. Stupisce, in particolare, che il giudice consideri il divieto di spostamento come impedimento assoluto, in quanto «si prevede che il cittadino non [possa] recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione». Cosa che non corrisponde affatto alla realtà.
Così argomentando, del resto, si finisce anche per svuotare di contenuto l’art. 16 della Costituzione, il quale prevede che la legge possa disporre limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno per motivi di sanità o sicurezza. Una lettura che circoscriva tali limitazioni a generici divieti di accesso a luoghi pericolosi appare decisamente frettolosa e fuorviante. Non a caso, i canonici esempi prospettati in dottrina di limitazioni alle libertà tutelate ai sensi dell’art. 16 attengono proprio ai provvedimenti che, a causa di un’epidemia, limitano la libertà di circolazione in un determinato territorio ed impediscono sia l’entrata sia l’uscita dal medesimo.
Appare infine paradossale che il giudice ignori completamente che le limitazioni alla libertà di circolazione sono state previste da una fonte primaria (il decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6) cui la fonte secondaria (il DPCM 8 marzo 2020) ha dato esecuzione, con la conseguenza di trascurare l’ampio dibattito sulla natura dei medesimi DPCM – sono assimilabili alle ordinanze di protezione civile? Sono comuni regolamenti di esecuzione? – e sul rinvio operato a tali provvedimenti da parte dei decreti-legge 23 febbraio 2020, n. 6, e 25 marzo 2020, n. 19. A quanto detto si aggiunga, per dovere di completezza, che le sanzioni penali conseguenti alla violazione delle restrizioni, ai sensi dell’art. 650 del codice penale, ancorché non evocato nella sentenza, sono state disposte anch’esse con fonte primaria (il già citato decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6).
Va detto che, in dottrina, è stata già prospettata la tesi secondo cui le restrizioni disposte per contenere l’emergenza epidemiologica imporrebbero limitazioni alla libertà personale strettamente intesa e non solo alle libertà di circolazione e soggiorno, che della libertà personale costituiscono evidentemente delle particolari declinazioni. Ma qui si va ben oltre, come si è detto, sino alla paradossale conclusione secondo cui disporre una limitazione degli spostamenti per motivi sanitari, quale quella introdotta per contenere la diffusione del COVID-19, equivarrebbe a comminare la pena della reclusione e che per farlo servirebbe un procedimento giurisdizionale e una sentenza di un giudice.
Il vero tema che andrebbe affrontato resta invece sullo sfondo, anzi viene completamente ignorato dalla sentenza in commento: la frettolosa formulazione del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, non rilevata peraltro dalle Camere in sede di conversione e successivamente “corretta” dal decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, e soprattutto il rinvio operato dai decreti citati a provvedimenti adottati con DPCM, rinvio che pone serie questioni di rispetto del principio della riserva di legge, del principio di legalità e, più in generale, del sistema costituzionale delle fonti normative. Questioni che restano dunque impregiudicate e su cui il contributo della presente decisione è pressoché nullo.