Alcuni recenti orientamenti giurisprudenziali europei consentono di formulare preliminari osservazioni sul tema del ruolo del giudice di fronte al fenomeno del cambiamento climatico antropogenico e all’interpretazione delle sue conseguenze.
Nell’era dell’emergenza climatica planetaria (accertata dalla comunità scientifica e dichiarata dalle istituzioni internazionali e sovranazionali), i giudici, chiamati a esprimersi sulle imputazioni statali delle emissioni climalteranti che mantengono o alimentano lo stato emergenziale, sono di fatto indotti a interrogarsi su due questioni, derivanti dalla particolare natura del fenomeno fattuale presupposto all’azione: la tutela giudiziale effettiva dei ricorrenti rispetto agli effetti delle emissioni climalteranti, oggetto di giudizio: le conseguenze “ultra partes” delle loro pronunce per via della portata globale delle medesime emissioni climalteranti.
Essi, in altre parole, si trasformano inesorabilmente in giudici “consequenzialisti” (sui caratteri di questa tipologia di giudice, cfr. V. Capasso, Giudici consequenzialisti, Napoli, ESI, 2020), regolatori del rischio nella doppia dimensione “bipolare”, del rapporto tra attore e convenuto, e “multipolare”, dello scenario fattuale del cambiamento climatico (cfr. E.R. de Jong, Tort Law and Judicial Risk Regulation. Bipolar and Multipolar Risk Reasoning in Light of Tort Law’s Regulatory Effects, in 9 European J. Risk Regulation, 1, 2018, 14-33).
Questo “consequenzialismo”, tuttavia, non appare omogeneamente trattato. Le prime esperienze giurisprudenziali europee sembrerebbero delineare circuiti argomentativi differenziati, segnati, prima ancora che dalle opzioni ermeneutiche del giudicante, dalle induzioni strategiche degli attori ricorrenti e dal tipo di decisione reclamata.
Due casi permettono di confermare l’ipotesi.
Il primo riguarda l’Unione europea con il c.d. “People’s Climate Case” del 25 marzo 2021. La Corte di giustizia (nella Causa C-565/19P) ha dichiarato inammissibile un ricorso per annullamento, promosso da 37 cittadini europei operanti nel settore agricolo e dell’allevamento, reputatisi danneggiati dagli effetti del cambiamento climatico, a loro avviso non sufficientemente contrastati dagli atti normativi europei. Nel rigetto, la Corte utilizza un classico argomento a contenuto consequenzialista di carattere “bipolare”, ossia riferito esclusivamente al rapporto tra attore e convenuto. In sintesi, l’ordito giudiziale è stato il seguente:
– la circostanza che gli effetti del cambiamento climatico colpiscano tutti e possano essere diversi da persona a persona, dipendendo dalle situazioni specifiche di tempo e luogo di ciascuno, non implica di per sé la legittimazione ad agire contro atti di portata generale, pretendendo di far valere, rispetto ad essi, la propria individuale vulnerabilità climatica;
– ai fini dell’impugnazione, il rapporto dedotto in giudizio deve investire non il nesso fattuale tra cambiamento climatico e vulnerabilità soggettiva, bensì la relazione formale tra atto impugnato e suo destinatario;
– se questa relazione è esclusa dal contenuto dell’atto impugnato o non è contemplata da altra fonte del diritto europeo, l’accesso al giudice non è ammesso, come del resto più volte ribadito dalla Corte sin dalla Sentenza del 15 luglio 1963 “Plaumann c./ Commissione” (25/62, EU:C:1963:17).
Il carattere “bipolare” del ragionamento giudiziale consequenzialista deriva dunque dall’imputare agli atti e alle fonti formali l’individuazione del rapporto diretto tra atto produttivo del fenomeno fattuale (l’emissione climalterante) ed effetti di vulnerazione: se esso sussiste, nulla osta alla legittimazione ad agire.
Nel caso di specie, i 37 ricorrenti non si sono mossi nella direzione della ricerca della fonte del rapporto bipolare diretto, avendo preferito insistere sulla inadeguatezza materiale delle misure europee di contrasto al cambiamento climatico e sui danni derivanti, patiti da tutti i cittadini europei e quindi anche da loro. Così procedendo, essi hanno paradossalmente facilitato il rigetto dell’iniziativa.
In prospettiva inversa, di natura anch’essa consequenzialista ma “multipolare”, ossia riferita all’intero contesto fattuale della decisione da assumere, sembra muoversi la Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso “Duarte Agostinho et al c/ 33 Stati” (App. n. 369371/20). Si tratta di un ricorso per saltum, promosso da sei giovani portoghesi (quattro bambini e due adolescenti) nei confronti di 33 Stati, tra cui l’Italia, imputati di eludere le proprie obbligazioni climatiche di riduzione delle emissioni per omessa considerazione della responsabilità comune ma differenziata, richiesta dagli accordi internazionali sul clima. L’iniziativa, unica nel suo genere, è corredata da una serie di documenti scientifici, tesi a comprovare questa mancata condivisione di responsabilità, attraverso la misurazione del contributo emissivo individuale degli Stati all’interno e all’esterno dei propri confini, inclusivo delle emissioni da esportazione di combustibili fossili, importazione di beni a “carbonio incorporato” (ossia climalteranti nel ciclo di produzione del bene), attività di imprese multinazionali con sede legale nei territori statali o partecipazione-finanziamento degli Stati convenuti.
La differenza dal “People’s Climate Case” sembra risiedere nell’approccio dei ricorrenti CEDU. Essi non si sono limitati ad affermare l’incidenza del fenomeno del cambiamento climatico sulle loro vite, imputandone la responsabilità “pro quota” ad atti o azioni degli Stati. Hanno provveduto a identificare parametri normativi internazionali di dettaglio (gli accordi sulla responsabilità statale comune ma differenziata in materia climatica), per vagliarne l’adempimento in buona fede attraverso rilevazioni scientifiche di identificazione delle provenienze emissive. Hanno poi insistito sulla situazione di “emergenza climatica” accertata dalla scienza, per rimarcare l’urgenza dell’istanza e il carattere planetario delle responsabilità comuni statali. La strategia argomentativa, in altre parole, è risultata essere di tipo normativo, prima ancora che meramente materiale, come tentato invece dai 37 cittadini europei del “People’s Climate Case“. Anche il ricorso all’evidenza scientifica e all’emergenza climatica risulta funzionale non alla descrizione dello scenario di vulnerazione generalizzata, bensì alla cognizione concreta dell’obbligazione solidale degli Stati nell’urgenza appunto di adempiervi.
I 33 Stati hanno provato a vanificare l’ordito, eccependone l’inammissibilità con due argomenti anch’essi consequenzialisti, ma “bipolari”, simili, cioè, a quelli della Corte di Lussemburgo del “People’s Climate Case“. A loro avviso, per un verso, i ricorrenti non starebbero incorrendo in alcun pericolo imminente, imputabile a specifici atti statali; per altro verso, le politiche climatiche statali non sarebbero sindacabili in sede giudiziale, proprio per carenza di relazione “bipolare” diretta con le presunte vittime.
La Corte di Strasburgo, però, non ha ceduto a questo approccio e ha concesso al caso lo status di priorità sulla base «dell’importanza e dell’urgenza delle questioni sollevate», imponendo ai convenuti di produrre le loro memorie difensive di merito entro il 27 maggio 2021. Secondo i giudici, infatti, la questione dedotta sarebbe meritevole di cognizione proprio per la sua portata “multipolare”, suffragata dal diritto internazionale climatico delle responsabilità statali comuni ancorché differenziate. Del resto, nel caso “Duarte Agostinho et al c/ 33 Stati“, è stato applicato l’orientamento selettivo dei ricorsi, aggiornato il 17 marzo del 2021 con il documento A Court that matters/Une Cour qui compte. A strategy for more targeted and effective case-processing. Tale approccio è contraddistinto dalla logica dei c.d. “casi di impatto”, identificati secondo criteri non a caso di natura consequenzialista “multipolare”. Infatti, in tale categoria rientrerebbero tutte le controversie che potrebbero: portare a un mutamento o chiarimento di legislazione o prassi internazionale o nazionale; coinvolgere questioni morali o sociali transnazionali; riguardare l’emersione di nuove dimensioni dei diritti umani attraverso la dichiarazione giudiziale di violazione della Convenzione ecc…
I “casi” sul cambiamento climatico si prestano agevolmente a questa rubricazione “di impatto”: e le ragioni sono almeno quattro, non riscontrabili nella giurisprudenza “bipolare” UE, da “Plaumann c./ Commissione” in poi.
In primo luogo, è lo stesso diritto internazionale climatico a favorire le qualificazioni di “impatto”, nel momento in cui rubrica il cambiamento climatico come “minaccia urgente” (si v. la Decision 1/CP.21 del 2015 dell’UNFCCC per l’adozione dell’Accordo di Parigi), riguardante tutti gli Stati e il genere umano. Com’è noto, il diritto internazionale assume un ruolo integrativo del parametro convenzionale della Corte di Strasburgo (si v. il caso “Demir e Baykara c/ Turchia“, App n. 34503/97, Corte EDU 12 novembre 2008, §§ 85-86), sicché aver giocato la carta delle responsabilità comuni per vincolo internazionale ha imposto alla Corte di aprirsi a una prospettiva “multipolare” di fonti di inquadramento del rapporto dedotto in giudizio, ignoto invece al quadro giurisprudenziale UE, dove, sin dal “caso Haegeman” (Causa C-181/73), gli accordi internazionali entrano nell’ordinamento europeo se conclusi dalla stessa UE e dunque vincolanti essa come tale, non i singoli Stati.
In secondo luogo, le fonti di cognizione scientifica e di soft law sono utilizzate da tempo dalla Corte europea dei diritti umani in una logica non semplicemente probatoria, ma di integrazione del consensus democratico sugli standard effettivi di tutela dei diritti umani (si v. in proposito P. Pinto de Albuquerque, Plaidoyer for the European Court of Human Rights, in European Human Rights L. Rev., 2, 2018, 119-133). Scienza e soft law, in pratica, condizionano e limitano il “margine di appezzamento” degli Stati sottoposti a giudizio e permettono di verificare se eventuali limitazioni dei diritti umani risultino «necessarie in una società democratica» per ragioni derivanti da acquisizioni scientifiche diffuse o condivisione di standard di condotta. Aver allegato fonti scientifiche internazionali e istituzionali (a partire dai Report dell’IPCC, il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico dell’ONU, al quale partecipano i rappresentanti governativi degli Stati convenuti) ha imposto al giudice l’onere di non sottovalutare il consensus scientifico sugli obiettivi quantitativi e i tempi di mitigazione, ridimensionando di riflesso il “margine di apprezzamento” rivendicato dagli Stati.
In terzo luogo, gli effetti del cambiamento climatico sono per natura indivisibili. La connessa questione dei danni non può essere ridotta a imputazione di un determinato atto, come argomentato invece nel “People’s Climate Case“. Essa riflette il concorso solidale degli Stati responsabili delle emissioni e solo in questa dimensione può essere discussa in una sede giudiziale internazionale. Del resto, già nel caso “Ilascu et al. c./ Moldova e Russia” (App. n. 23687/05, Corte EDU 2 giugno 2012), era stata ammessa la responsabilità di uno Stato per effetti estesi al di fuori della sua giurisdizione.
In quarto luogo, non va sottovalutato il differente intervento giudiziale, richiesto dagli istanti nei due casi europei: annullamento di atti e risarcimento del danno, per il giudizio UE; dichiarazione di violazione della Convenzione senza ordine di riduzione delle emissioni, per quello EDU.
Sembra allora profilarsi una divario di sostanza, non solo di strategia argomentativa, tra i due giudici “consequenzialisti”. Se il loro compito è “dichiarare” ma non “annullare”, l’approccio “multipolare” appare percorribile perché, di fatto, più simbolico che effettivo. Il mancato rispetto della responsabilità climatica condivisa in termini di violazione dei diritti umani CEDU permetterà, infatti, di consolidare parametri normativi già esistenti, accertati in una proiezione di specificazione regionale. Niente di più. Per andare oltre, sarà necessario riutilizzare quella giurisprudenza convenzionale in sede domestica dei singoli Stati, dove provare a invocare l’interpretazione “climaticamente orientata” del parametro CEDU nel quadro di specifiche responsabilità civili o pubbliche di diritto interno. In conclusione, la “multipolarità” sortirà effetti concreti solo in termini consequenziali ed eventuali.
Tutto questo conferma la duttilità dell’approccio “consequenzialista” del giudice europeo, rispetto alla tutela effettiva dei diritti nello scenario del cambiamento climatico. Se “consequenzialismo” significa che le proprietà di una decisione dipendono soltanto dalle conseguenze, non può non osservarsi, alla luce dei recenti due casi europei, quanto le strategie argomentative a suo sostegno possano differire e di fatto differiscano sotto diversi aspetti: dall’oggetto preso in considerazione nel ragionamento “consequenzialista” (singoli atti da annullare piuttosto che fonti integrative da assumere come parametro di accertamento e dichiarazione delle responsabilità); al metodo di valutazione delle conseguenze prese in esame (“bipolare” di qualificazione del rapporto tra attore e convenuto, come nel “People’s Climate Case“, invece che “multipolare” di cognizione, attraverso la scienza, dei contributi degli Stati all’emergenza planetaria, come nel caso “Duarte Agostinho“); all’impatto delle decisioni finali (di annullamento sovranazionale o di accertamento internazionale ad eventuale effetto consequenziale di illegittimità interna).
Ancora una volta, il contenzioso climatico si dimostra fecondo di inesplorati percorsi di comparazione tra formanti giurisprudenziali.