Parità salariale: la fine di un’uguaglianza ambigua?

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di Luana Leo*

“Nasce finalmente una democrazia di donne e di uomini”. Oggi, più che mai, le parole di Teresa Mattei, la più giovane costituente italiana, risultano incisive e di spessore. Alla partigiana genovese si riconosce il grande merito di aver tracciato la distinzione tra eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale, nonché l’idea che le conquiste giuridiche dovessero accostarsi a “conquiste di carattere sociale ed economico” e da una “completa legislazione in proposito”. Alla stessa si deve la previsione dell’espressione “di fatto” che esplicita il principio di eguaglianza sostanziale nei termini ad oggi conosciuti nel nostro ordinamento costituzionale. Pochi giorni fa, è stata approvata in Senato la legge sulla parità salariale, senza apportare modifiche rispetto al testo accolto dalla Camera due settimane prima.

Il fine prefissato è quello di contrastare il fenomeno del gender pay gap, andando così ad incidere sul Codice delle pari opportunità con una serie di novità, tra cui incentivi all’assunzione di personale femminile e sgravi fiscali fino a 50 mila euro per coloro che adottano politiche idonee a conciliare tempi di vita e lavoro delle lavoratrici. Tuttavia, il nucleo centrale del Ddl n. 2418 consiste nell’introduzione della c.d. “certificazione della parità di genere”, ossia un documento pubblico in cui ogni azienda con più di 50 dipendenti dovrà riportare con cadenza biennale taluni indicatori sulle proprie politiche del personale, da salari a inquadramenti a congedi e reclutamento. A corredo di tale misura si dispone la pubblicazione dell’elenco delle imprese che inoltreranno o meno il rapporto, con la previsione di multe fino a 5 mila euro per omessa o fallace comunicazione dei dati richiesti.

Appare opportuno sottolineare come la differenza salariale di genere rappresenti un problema non soltanto italiano. Il 4 marzo scorso, la Commissione europea ha avanzato una proposta di direttiva COM(2021)93, ancora in fase di approvazione, mirante a “rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso a trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi”. In particolare, per le aziende con oltre 250 mila dipendenti graverebbe l’obbligo di rendere pubbliche le informazioni sul divario retributivo e di compiere periodicamente una valutazione dei salari di concerto con le rappresentanze sindacali, predisponendo interventi correttivi laddove il gap sia pari o superiore al 5% e non sia giustificabile in virtù di fattori oggettivi. Tra i punti-chiave della direttiva vi è l’obbligo per gli Stati di adottare un sistema sanzionatorio efficace, che potrebbe prevedere la revoca di erogazioni pubbliche e l’esclusione delle gare d’appalto pubbliche. Nella relazione che accompagna la proposta si evidenzia come il diritto alla parità retributiva tra uomo e donna sia un principio fondamentale sancito dal Trattato di Roma.

Sebbene la necessità di garantire la parità retributiva sia enunciata nella direttiva 2006/54/CE (integrata dalla “Raccomandazione del 2014”), la Commissione europea prende atto che la concreta attuazione e applicazione di tale principio nella quotidianità continua a rappresentare una sfida per l’Unione Europea. Rispetto all’iniziativa europea, l’intervento nazionale appare più timido. A tal riguardo, si è parlato di un “passo di fondamentale importanza” verso l’effettivo superamento delle disuguaglianze di genere. Tale intervento costituisce – ad avviso di chi scrive – un piccolo passo in avanti ai fini del conseguimento del obiettivo prefissato; un passo avvenuto con notevole ritardo rispetto alle aspettative. Al contempo, occorre segnalare che il tema della parità retributiva tra uomo e donna fu oggetto di accesa discussione in Assemblea Costituente. La scrittura dell’art. 37 Cost., infatti, non fu agevole e il risultato non sembra essere stato ineccepibile. Da sempre, i dubbi della dottrina riguardano il secondo periodo del primo comma, ai sensi del quale “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare”, oltre che “assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Peraltro, la parità retributiva risultava, per taluni Costituenti, ardua da accettare, in virtù della convinzione che la figura femminile espletasse “un lavoro più leggero e più confacente alla sua natura”; il salario, dunque, doveva essere proporzionato al minor rendimento. Dall’entrata in vigore della Costituzione del 1948 ad oggi, sono stati compiuti dei progressi. I dati statistici relativi alla partecipazione delle donne al mondo del lavoro e sul gender pay gap rivelano un profondo divario tra l’Italia ed i principali Paesi europei. Di frequente, il Comitato europeo dei diritti sociali ha ravvisato, nella legislazione italiana, la mancanza di norme tendenti a garantire la trasparenza salariale e la comparabilità tra i livelli retributivi.

In seguito, il Comitato ha preso atto della totale indifferenza mostrata dall’Italia in merito “Raccomandazione del 2014”, rispetto alla quale non è mai stata avviata una discussione. In Germania, invece, la Ministra federale della famiglia propose rapidamente una legge sulla trasparenza salariale. In Italia, la proposta di legge avanzata nella XVII Legislatura (A.C. 3000) sembrava ispirarsi all’iniziativa della ministra tedesca. Al fine di colmare il gap retributivo tra i sessi, essa richiedeva alle imprese e alle organizzazioni di assicurare “la trasparenza e la pubblicità della composizione e della struttura salariale della remunerazione dei propri dipendenti, con l’omissione di qualsiasi elemento identificativo personale, tranne l’indicazione del sesso”;  la suddetta proposta fu arrestata, senza essere rilanciata dai Governi successivi.

È interessante constatare come le decisioni di altre Corti costituzionali (ad es. il Bundesverfassungsgericht) offrano una lettura ampia del principio di eguaglianza, diretta a disattivare i tradizionali ruoli di genere e capace di promuovere il diritto alla parità salariale. Per agire sulle intense cause della disuguaglianza retributiva è indispensabile l’intervento del legislatore, nonché una normativa che consenta l’esercizio effettivo del diritto mediante la trasparenza salariale.

La legge sulla parità retributiva costituisce un “risultato cruciale” per la vita delle lavoratrici. In Italia, il problema del divario salariale tra uomo e donna necessita di essere compreso e trattato – a parere di chi scrive – sotto un’altra ottica, ossia nel più generale contesto dalla ridotta partecipazione delle donne nell’ambito di lavoro.

Nella sfera professionale, le donne assumono una posizione secondaria rispetto agli uomini, specialmente per motivi culturali: è ancora radicata l’idea che i lavori domestici siano riservati alle donne. Prima di porre sullo stesso piano i due sessi nel campo professionale, occorre rivedere il ruolo svolto dall’uomo nel contesto privato e familiare. In definitiva, si ritiene necessario coniugare l’obiettivo della parità di genere con lo studio, la pianificazione e la realizzazione delle politiche familiari, superando così la tendenza ad adottare interventi saltuari e inefficaci.

È opportuno sottolineare come la pandemia da Covid-19, oltre ad avere privato le donne del proprio posto di lavoro, abbia accentuato la rigida divisione dei ruoli in base al genere, confinando le stesse nella dimensione domestica.

Una prospettiva certamente lontana da quella immaginata da Teresa Mattei nella storica seduta del 18 marzo 1947, per la quale “nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile”.

 

* Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale – Università Lum Jean Monnet

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