Lo scarso valore della sentenza polacca sulla prevalenza del diritto UE

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di Matteo Bursi*

La Corte Costituzionale polacca, con la sentenza del 7 ottobre 2021 in merito alla conformità di alcuni articoli dei Trattati europei con la Costituzione, ha sganciato un’autentica “bomba” sulla, già fragile, struttura euro-unitaria, causando un sisma giuridico-politologico che ha interessato tutto il vecchio continente. Invero, con questo pronunciamento, i giudici di Varsavia hanno dichiarato incompatibili con la Konstytucja Rzeczypospolitej Polskiej alcune norme alla base dell’ordinamento dell’Unione Europea (gli articoli 1, 2, 4.3 e 19 del TUE), certificando conseguentemente il primato del diritto interno su quello dell’UE e rivendicando, quindi, una piena autonomia dello Stato polacco rispetto a quanto deciso da Bruxelles e dalla Corte del Lussemburgo. Le ragioni alla base di questo pronunciamento sono, secondo il punto di vista di chi scrive, piuttosto chiare: il Governo di Varsavia vuole rimanere indisturbato nella costruzione di una “democrazia illiberale” e, non gradendo in tal senso alcuna ingerenza da parte dell’Unione Europea, decide di schermarsi dietro ad una sentenza dell’Alta Corte nazionale, potendo quindi millantare un imprimatur giurisprudenziale rispetto al proprio operato (un avallo scontato, vista la politicizzazione del Tribunale effettuata dal partito di maggioranza negli ultimi anni); non v’è dunque spazio per alcuna lettura che interpreti questo pronunciamento come il primo passo della Polonia verso l’uscita dall’Unione, abbandono che costerebbe al Paese la perdita di ingenti risorse economiche con cui, negli ultimi vent’anni, è stata sostenuta la robusta crescita del PIL.
La sentenza, va detto fin da subito, appare, secondo il nostro punto di vista, giuridicamente non condivisibile: invero, anteporre a priori le norme interne a quelle dell’Unione mette in discussione il complessivo concetto di diritto internazionale e, di rimando, pone a repentaglio l’esistenza (e la ragione di esistere) di ogni organizzazione sovranazionale. Sia ben chiaro però un elemento: con quanto appena scritto non si vuole assolutamente negare l’esistenza di rilevanti lacune nei Trattati euro-unitari, mancanze che, sotto diversi punti di vista, potrebbero (apparentemente) fornire un supporto alla causa polacca. Il più importante di questi “vuoti normativi” è probabilmente incarnato dall’assenza di un articolo che attribuisca in modo esplicito alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il ruolo di giudice di ultima istanza all’interno dell’UE, delegando principalmente alla giurisprudenza del Lussemburgo il fondamentale compito di dare ordine fra i diversi Tribunali nazionali e quello dell’Unione. In tal senso, è fondamentale richiamare quel pluridecennale dibattito che viene abitualmente derubricato sotto la voce “dialogo fra Corti” e che, sovente, ha fatto emergere notevoli asperità fra i giudici nazionali e quelli della CGUE (si pensi alla sentenza tedesca sul PSPP).

A tutta evidenza, però, in questa circostanza ci muoviamo su di un terreno radicalmente diverso: la Corte di Varsavia non ha infatti attivato controlli di identità costituzionale con riferimento all’interpretazione di una singola norma o alla risoluzione di una specifica controversia, bensì ha affermato che il diritto polacco, in caso di conflitto con quello euro-unitario, prevale. Punto. Questa è la grande differenza che si può notare nel comparare la sentenza in oggetto con determinati pronunciamenti passati dei giudici costituzionali di altri Paesi membri dell’Unione Europea, tribunali che hanno sì sancito l’esistenza dei cd. controlimiti, o che hanno anche rivendicato il diritto di vigilare su eventuali atti ultra vires, ma che, in linea di massima, hanno riconosciuto i Trattati euro-unitari come fonti superiori a quelle interne. D’altronde sarebbe facile immaginarsi quello che potrebbe accadere se il “metodo polacco” venisse esteso a tutti gli altri Stati dell’UE: altro che Europa à la carte, andremmo rapidamente incontro ad un susseguirsi di spinte centrifughe che farebbe inevitabilmente crollare la struttura ideata da Jean Monnet.        
Nella presente situazione, pertanto, sarebbe ultroneo mettere in rilievo il, più che legittimo e sensato, dibattito fra concezione monista e dualista, dato che i giudici di Varsavia agiscono al di fuori da riflessioni giuridiche particolarmente ponderate ed omettono la considerazione dei più basilari elementi che regolano il diritto internazionale, ancor prima che quello euro-unitario (partendo da “pacta sunt servanda”). Sarebbe quindi ora necessario accantonare, almeno su questo tema, le strategie di appeasement che in passato sono state adottate dalle istituzioni europee (sospinte da alcuni Stati membri) nei confronti dei Paesi facenti parte del cd. blocco di Visegrad, richiamando il Governo di Morawiecki al rispetto di quei principi che Varsavia ha deciso di osservare nel momento in cui ha aderito all’Unione Europea. L’inazione non è più un’ipotesi sul tavolo poiché, seppellendo silenziosamente questa vicenda, si finirebbe per creare un precedente che legittimerebbe azioni affini e, purtroppo, nell’UE di oggi ci sono esecutivi “amici” di quello polacco. Speriamo che questo lo abbia presente anche il nuovo Governo di Berlino, qualunque esso sia.  

* dottorando in Lavoro, Sviluppo e Innovazione presso la Fondazione Marco Biagi di Modena

 

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