Un giudice può disapplicare le leggi che gli sembrano incostituzionali?

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di Roberto Bin

L’interrogativo del titolo ha intrigato i costituzionalisti più di mezzo secolo fa, ma la risposta negativa è ormai certa, e nessuno ne dubita più: la Corte costituzionale è sempre stata ferma sul punto. Ma qualcuno ci prova ancora, convinto che le sue personali considerazioni attorno alla successione di atti con cui il Governo ha fatto fronte alla pandemia sia viziata irrimediabilmente.

Lo dice lui, il Tribunale di Pisa in formazione monocratica, suffragato “dalla miglior dottrina”, puntualmente citata. Riportiamo la lunga e stupefacente sentenza, che si snoda attraverso argomentazioni spesso sorprendenti  (che lo stato di emergenza è “una declinazione” dello stato di eccezione; che la pandemia non può essere considerata una calamità naturale, per cui la delibera del Consiglio dei ministri che la proclama è illegittima per violazione del c.d. codice della protezione civile (“La calamità naturale, pertanto, non ha nulla a che fare con l’epidemia-pandemia, provocata da agenti virali o batterici”); che “manca, perciò, un qualsivoglia presupposto legislativo su cui fondare la delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con consequenziale illegittimità della stessa per essere stata emessa in violazione dell’art. 78, non rientrando tra i poteri del Consiglio dei Ministri quello di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria”); che di conseguenza sono illegittimi i decreti-legge e, a cascata, i dPCM emanati su tale presupposto; che i decreti-legge conferiscono “una delega in bianco” al PCM, “in tal modo – come affermato da autorevole dottrina cui si intende aderire [citata] – il fondamento giuridico, costituito dai decreti legge, si presenta a ‘maglie larghe’, consentendo ai dPCM un eccesso di discrezionalità, non proporzionata ed adeguata”); che i dPCM sono atti normativi capaci di “innovare l’ordinamento giuridico”, per cui è violata la riserva assoluta di legge: ecc.

Ciò che più colpisce è l’argomento che fa da cerniera della motivazione: i decreti-legge “esplicano, di fatto, la loro carica e funzionalità emergenziale con una portata extra ordinem, tale da violare riserva di legge assoluta e principio di legalità sostanziale. Difatti, il governo non perimetra, né limita l’azione dei dPCM”. Tutto deriva da una “fonte normativa (DL n. 6/2020) costituzionalmente illegittima (per violazione dei principi di riserva di legge e di legalità)”; con la conseguenza che ciò “determina la stessa illegittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 del DL n. 19/2020, ciò in quanto esso si pone in rapporto di reiterazione implicita del DL n. 6/2020, che continua così a fungere da base legale (non conforme alia Costituzione) dei DPCM emanati ed emandandi.”

Ma al giudice pisano l’art. 101.2 Cost. (“I giudici sono soggetti soltanto alla legge“) non dice proprio nulla? E l’art. 134 (“La Corte costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge“) neppure?

 


Trib. Pisa, sent., 17 febbraio 2022, n. 1842
Agli odierni prevenuti è, infine, contestata, ai sensi dell'art. 650 cp, la violazione dell'ordine imposto con DPCM dell'8/03/2020, per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, di non uscire se non per motivi di lavoro, salute o necessità.

In merito a tale reato si ritengono sussistenti i presupposti per la pronuncia di assoluzione nella formula più ampia e favorevole al reo, perché il fatto non sussiste e non perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, con trasmissione degli atti al Prefetto, in quanto non si reputa il DPCM 08.03.2020 costituente provvedimento legalmente dato dall'Autorità, come per contro richiesto dall'art. 650 cp.

Si rileva che a causa della epidemia da COVID-19, al fine di tutelare la salute pubblica, sono state emanate disposizioni che hanno comportato la sospensione e compressione di alcune libertà garantite dalla nostra Carta Costituzionale, come previsti dagli artt. 13 e seguenti della stessa.

Si tratta di libertà che concernono i diritti fondamentali dell'uomo e costituiscono il “nucleo duro” della Costituzione stessa, tanto che, secondo la dottrina maggioritaria (Cfr. C. Mortati, in “Una e indivisibile”, Milano, Giuffré 2007, p. 216; G. Azzariti, in Revisione Costituzionale e rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione, in Nomos, Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale, n. 1-2016, p. 3) non sono revisionabili nemmeno con il procedimento di cui all'art. 138 Cost. - Revisione della Costituzione, ragion per cui occorre verificare se, a quali condizioni e con quali modalità, in situazioni emergenziali, tali diritti possano essere compressi a tutela di altri diritti anch'essi costituzionalmente previsti.

Si deve evidenziare che l'Ordinamento Costituzionale Italiano, non contempla né lo stato di eccezione, né lo stato di emergenza, che è una declinazione dell'eccezione, al di fuori dello stato di guerra, previsto all'art. 78 della Cost.

Lo stato di emergenza è una condizione giuridica particolare che può essere attivata al verificarsi di eventi eccezionali.

Questa particolare situazione emergenziale richiede, pertanto, un intervento urgente e con poteri straordinari al fine di tutelare i cittadini e porre rimedi ad eventuali danni.

Tuttavia, per fronteggiate una tale situazione gli strumenti idonei a cui si fa ricorso devono trovare, comunque, un fondamento di rango costituzionale, specie per quanto attiene ai presupposti, qualora incidano e impattino su diritti costituzionalmente garantiti.

Orbene, la Costituzione italiana non prevede alcun articolo che disciplini lo stato d'emergenza/d'eccezione, volto a ricomprendere tutte quelle situazioni diverse (purché interne) che non si riferiscano al vero e proprio “stato di guerra" previsto ex art. 78 Cost. (inerente conflitti bellici esterni).

Per altro, la situazione attuale causata dal Covid 19 non è nemmeno giuridicamente assimilabile allo “stato di guerra", per cui non è possibile far ricorso all'applicazione analogica dell'art. 78 Cost. del resto, l'assenza di uno specifico diritto speciale per lo stato di emergenza è frutto di una consapevole scelta dei padri costituenti; infatti, la proposta di introdurre la previsione dello stato di emergenza per ipotesi diverse da eventi bellici (come ad esempio per motivi di ordine pubblico durante lo stato di assedio) non venne accolta, onde evitare che attraverso la dichiarazione dello stato di emergenza si potessero comprimere diritti fondamentali con conseguente alterazione dello stesso assetto dei poteri. L'allora Presidente della Consulta Marta Cartabia, oggi Ministro della Giustizia, il 28 aprile 2020 ebbe a dichiarare: «Non c'è un diritto speciale, anche in emergenza. La Costituzione sia bussola per tutti».

Peraltro, in dottrina si rileva che all'Interno dell'ordinamento costituzionale italiano sia comunque rinvenibile un "implicito statuto costituzionale dell'emergenza”, quale espressione dei tradizionali principi del primum vivere e del salus rei publicae, e costituito dai principi di unità ed indivisibilità della Repubblica, di tutela della salute pubblica e della pubblica sicurezza, da specifiche fonti sulla produzione normativa determinata dalia necessità ed urgenza e dall'intangibilità dei principi supremi del vigente ordine costituzionale, primi su tutti i diritti fondamentali, i quali - per espressa volontà dei padri costituenti - si trovano tra loro in rapporto di integrazione reciproca e mai di prevalenza di uno rispetto agli altri: “dalla sentenza 83/2013 della Consulta si evince chiaramente che la tutela dei diritti non può ingigantirsi a tal punto da tiranneggiare sulla protezione di altri diritti di pari natura costituzionale.”

Pertanto, qualora emergano situazioni emergenziali, in cui si ravvisi la necessità di dare attuazione ai principi precauzionali del primum vivere e del salus rei publicae, occorre sempre tener presente che non è possibile istituire una gerarchia tra le varie figure di diritti fondamentali, non sussistendo nell'ordinamento costituzionale alcuna presunzione assoluta di prevalenza di un diritto su tutti gli altri.

Quindi, qualora l'esercizio di un diritto comporti, in caso di necessità ed urgenza, la limitazione di altri, ciò deve avvenire nel rispetto dei principi della legalità, riserva di legge (assoluta o relativa), necessità, proporzionalità, bilanciamento e temporaneità, in quanto, altrimenti, si determinerebbe l'insorgere del cd. "diritto tiranno” (avanti al quale tutti gli altri diritti dovrebbero soccombere), con conseguente non solo violazione della Costituzione, ma addirittura superamento del perimetro delineato dalla carta costituzionale (non una incostituzionalità ma una “a-costituzionalità”, Cfr. F. Giulimondi, “la Costituzione ai tempi del coronavirus (sottacendo sulla "costituzione sospesa")", in Foroeuropa, 2020, n. 2).

Poiché nella situazione venutasi a creare con la diffusione del virus denominato Sars-Cov-2, si è ravvisata la necessità di contemperare la tutela dei diritti fondamentali del singolo individuo con quella della salute pubblica, garantita dall'art. 32 Cost., non è irrilevante, ai fini del decidere, verificare se la composita filiera normativa emergenziale posta in essere dal Governo - costituita dalla deliberazione dello stato di emergenza e successive proroghe, dai decreti legge e dai DPCM - rispetti o meno principi di legalità e di riserva di legge, di temporaneità, ragionevolezza, bilanciamento, e proporzionalità, così come sanciti dalia Carta Costituzionale, e se, pertanto, le delibere emesse dal Consiglio dei Ministri, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri abbiano o meno una copertura normativa.

Lo statuto dell'emergenza ad hoc (come definito da autorevole dottrina, Cfr. M. Calamo Specchia, A. Lucarelli, F. Salmoni - Sistema Normativo delle fonti nel governo giuridico della pandemia. Illegittimità diffuse e strumenti di tutela, in Rivista AIC 2021 n. 1), delineato dal Governo, trae “origine” dalla Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 - emessa in forza del combinato disposto degli artt. 7, comma 1, lettera c), e 24, comma 1 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1 - con cui veniva dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza nazionale “in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza dii patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Il D.Lvo n. 1 del 02.01.2018 (c.d. Codice della Protezione Civile), prevede, infatti, all'art. 24, la deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri dello stato di emergenza, da pubblicarsi sulla Gazzetta Ufficiale, qualora ricorrano le “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo di cui all'art. 7 lett. c).

Tale delibera rientra nel novero dei provvedimenti non avente forza di legge, di cui alla previsione di cui alla lett. a) dell'art. 3 (Norme in materia di controllo della Corte dei conti) della legge n. 20/1994, e, come tale - anche per espressa previsione del comma 5 dell'art. 24 D.Lgs. n. 1/2018 -, essa è esclusa da qualsiasi controllo preventivo circa la legittimità e fondamento, mentre rimane soggetta al successivo vaglio dell'autorità giudiziaria.

Pertanto, ai fini della sua giustiziabilità, si deve verificare se la delibera de qua sia stata effettivamente emanata sulla base di sussistenti presupposti normativi.

Orbene, il D.Lgs n. 1/2018 all'art. 7 individua le tipologie degli eventi emergenziali, fra le quali rientrano, lett. c), le: “emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell'articolo 24".

Si tratta a questo punto di verificare se il “rischio sanitario” connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, fondante la delibera del Consiglio dei Ministri, rientri o meno negli “eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo”, di cui all'art. 7 sopra citato, evidenziandosi che per tali si intendono le calamità naturali, quali terremoti, maremoti, alluvioni, valanghe ed incendi.

Si deve rilevare come l'epidemia o la pandemia non rientrino in alcun modo nell'ambito delia calamità naturale, per il semplice motivo che sono dimensioni di crisi del tutto diverse fra di loro.

Infatti, la pandemia, è “una epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territori e continenti. La pandemia può dirsi realizzata soltanto in presenza di queste tre condizioni: un organismo altamente virulento, mancanza di immunizzazione specifica nell'uomo e possibilità di trasmissione da uomo a uomo; l'epidemia è una manifestazione collettiva d'una malattia (colera, influenza ecc.), che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile.”

La calamità naturale si configura dinanzi ad “ogni fatto catastrofico, ragionevolmente imprevedibile, conseguente a eventi determinanti e a fattori predisponenti tutti di ordine naturale, e a loro volta ragionevolmente imprevedibili”.

La calamità naturale, pertanto, non ha nulla a che fare con l'epidemia-pandemia, provocata da agenti virali o batterici.

Il Legislatore, nel redigere un testo onnicomprensivo sulla Protezione civile come il d.lgs. 1/2018, non ha indicato il rischio epidemico fra quelli a causa dei quali occorre intervenire, previa dichiarazione di stato di emergenza comunale, regionale o nazionale.

Il Legislatore, ad esempio, cita nel dettaglio l'inquinamento marino all'art. 24, comma 8, d.lgs. 1/2018, ma non fa alcun riferimento all'epidemia.

Certamente non è credibile inserire il plesso epidemia-pandemia nella locuzione "rischio igienico-sanitario”, ex art. 16, comma 2, d.lgs. 1/2018, il rischio igienico sanitario - di competenza delle ASL - individua e valuta i fattori di rischio chimico e biologico, oltre le relative misure di prevenzione e protezione per la salute dei lavoratori, dei consumatori e degli utenti, nonché le misure di sicurezza per la salubrità degli ambienti di lavoro e professionali, di ristorazione, intrattenimento e commercio, degli edifici e delle strade a partire dalla raccolta e gestione dei rifiuti e, infine, degli alimenti e dei prodotti eno-agro-gastronomici.

Dentro i piccoli argini del rischio igienico sanitario - di competenza legislativa esclusiva delle Regioni - non si possono far rientrare le dimensioni nazionali ed internazionali di una pandemia, di spettanza normativa esclusiva dello Stato.

Pertanto, le disposizioni normative poste a base della dichiarazione dello stato di emergenza del 31.01.2020 nulla hanno a che vedere con situazioni di “rischio sanitario”, qual è quello derivato dal virus Sars-Cov-2 (certamente evento calamitoso), riguardando altri e diversi eventi di pericolo: "eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo” (recita l'art. 7 comma 1) lett. C D.Lgs n. 1/18), vale a dire calamità naturali, quali terremoti, maremoti, alluvioni, valanghe ed incendi, con la conseguenza che viene meno il fondamento giuridico di rango primario della delibera del 31.012020. Venendo meno la fonte normativa primaria, occorre far ricorso alla Carta Costituzionale e, come già sopra ampiamente argomentato, in essa non è riscontrabile alcuna disposizione che conferisca poteri particolari al Governo, tranne che venga deliberato dalle Camere lo stato di guerra, nel qual caso (le Camere) “conferiscono al Governo i poteri necessari” (art. 78 Cost.).

Manca, perciò, un qualsivoglia presupposto legislativo su cui fondare la delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con consequenziale illegittimità della stessa per essere stata emessa in violazione dell'art. 78, non rientrando tra i poteri del Consiglio dei Ministri quello di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.

In conclusione, la delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020 è illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario.

A fronte della illegittimità della delibera del CdM del 31.01.2020, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID 19, nonché tutte le successive proroghe dello stesso stato di emergenza.

Peraltro, oltre all'acclarata illegittimità della dichiarazione dello stato di emergenza, si ravvisano violati i principi di legalità e di riserva di legge, in quanto - nei modello emergenziale costruito dal Governo - le libertà fondamentali sarebbero state limitate formalmente da norme di rango primario (ovvero dai vari decreti legge fin in qui adottati) ma nella sostanza sono state compresse dai DPCM, atti di natura amministrativa.

Con la dichiarazione dello stato di emergenza, il Governo assume la gestione dell'emergenza sanitaria da Covid 19, mediante il ricorso alla decretazione d'urgenza, di cui all'art. 77 Cost., a sua volta posta alla base dei DPCM, con i quali sono state adottate misure più stringenti e limitative dei diritti fondamentali degli individui, anche rispetto a quanto previsto negli stessi decreti - legge, primo tra tutti il decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020. Invero, il D.L. n. 6/2020 costituisce una “delega in bianco” a favore del governo, dotando sé stesso e lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri di poteri extra ordinem.

Difatti, il DL n. 6/2020 conferisce al Governo ed in particolare al Presidente dei Consiglio – all'art. 1 - ampi poteri con delega in bianco, con il limite del rispetto dei criteri dell'adeguatezza e della proporzionalità, laddove si dispone che “le autorità competenti possono adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica", nonché – all'art. 2 - una delega in bianco, senza limitazione alcuna, laddove si dispone che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19", senza specificazione alcuna in ordine alla tipologia e alle misure atipiche, anche fuori dai casi disciplinati dall'articolo 1, comma 1 e, dunque, diverse da quelle previste nel decreto legge in questione, con ciò eludendo sia la riserva di legge posta a livello costituzione, sia il principio di legalità non solo formale ma anche sostanziale.

Quindi, ogni misura di contenimento e di gestione dell'emergenza, dettata dall'evolversi della situazione epidemiologica, è adottata, sulla base della suddetta procedura, nella forma giuridica del dpcm, ovvero di un atto monocratico, di titolarità e responsabilità politica del presidente del consiglio dei ministri, come tale sottratto al vaglio del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Corte Costituzionale e della stessa Corte dei Conti.

In tal modo - come affermato da autorevole dottrina cui si intende aderire (cfr. A. Lucarelli - Costituzione, fonti del diritto ed emergenza sanitaria, in Rivista AIC 2020 n. 2) - il fondamento giuridico, costituito dai decreti legge, si presenta a “maglie larghe”, consentendo ai dpcm un eccesso di discrezionalità, non proporzionata ed adeguata.

Essi, pertanto, esplicano, di fatto, ila loro carica e funzionalità emergenziale con una portata extra ordinem, tale da violare riserva di legge assoluta e principio di legalità sostanziale. Difatti, il governo non perimetra, né limita l'azione dei dpcm.

Nel caso di specie, si tratta di un ampio trasferimento di poteri a favore del presidente del consiglio dei ministri che, con discrezionalità, ogni qualvolta ritenga che la misura sia adeguata e proporzionata per affrontare la crisi epidemiologica, può adottare atti amministrativi, e finisce per innovare l'ordinamento giuridico.

Di fatto, la riserva di legge assoluta che, a determinate condizioni, legittima la limitazione dei diritti fondamentali, a partire dalla libertà di circolazione, si trasforma in una riserva di atto amministrativo (dpcm), con un evidente vulnus al principio di legalità sostanziale.

L'innovazione ordinamentale, introdotta dai dpcm, si palesa laddove la norma (decreto-legge), che si atteggia nebulosamente quale fondamento-attribuzione del potere, non delinea né limiti formali, né sostanziali all'esercizio di tale potere, al di fuori della locuzione «adozione di atti adeguati e proporzionati per affrontare la crisi».

Si tratta, dunque, di atti amministrativi capaci di incidere potenzialmente ed in effetti incidono su tutta la prima parte della Costituzione, con violazione delia riserva di legge assoluta e del principio di legalità.

Pare evidente come sia stata conferita ai Presidente dei Consiglio una delega generale, sia in violazione dell'art. 76 Cost. (rilevandosi che una siffatta delega non potrebbe nemmeno essere conferita al Consiglio dei Ministri, senza indicazione da parte del Legislatore (rectius Parlamento) dei limiti e degli ambiti in cui esercitare la funzione legislativa delegata), sia in violazione dell'art. 78 Cost., in quanto la situazione di emergenza sanitaria non rientra nella previsione di tal norma costituzionale (ove, per altro, si parla di conferimento al Governo, quale organo collegiale, dei poteri necessari e non di certo qualsiasi potere).

In altri termini, viene delegato al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di attuare misure restrittive, molto ampio e senza indicazione di alcun limite, nemmeno temporale, con compressione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di movimento e di riunione (artt. 16 e 17 Cost.), il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, anche in forma associata (art. 19 Cost.), il diritto alla scuola (art. 34 Cost.), il diritto al lavoro (art. 36 Cost.), il diritto alla libertà di impresa (art. 41 Cost.), e tutto ciò, si ribadisce, non con legge ordinaria, ma con un decreto del Presidente del Consiglio, che risulta inficiato da illegittimità per diversi motivi, tra cui:

a) mancanza di fissazione di un effettivo termine di efficacia;

b) elencazione meramente esemplificativa delie misure di gestione dell'emergenza adottabili dal Presidente del Consiglio dei Ministri;

c) omessa disciplina dei relativi poteri.

Pertanto, alla luce delle deduzioni sopra svolte, si deve rilevare, a parere di questo giudice e non solo, come da argomentazioni di eminenti costituzionalisti ed ex presidenti, vice presidenti e consiglieri della Corte Costituzionale (Cassese, Baldassarre, Marini, Cartabia, Onida, Maddalena), oltre che da decisioni di giudici di merito (Frosinone, Roma, Reggio Emilia), la indiscutibile illegittimità del DPCM del 8/3/2020 (come pure di quelli successivi emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri), ove viene stabilito all'art. 1 che, allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell'Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le misure volte ad evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute, consentendo il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza;" e ove, all'art. 4, rubricato Monitoraggio delle misure, il mancato rispetto degli obblighi di cui al DPCM de quo viene punito ai sensi dell'art. 650 cp.

Disposizione poi estesa a tutto il territorio nazionale per effetto del D.P.C.M. 9 marzo 2020, recante misure urgenti di contenimento del contagio sull'intero territorio nazionale, innovando l'ordinamento giuridico con misure sempre più stringenti e limitative delle libertà.

Difatti, con tali provvedimenti, aventi natura meramente amministrativa, si è stabilito un divieto generale e assoluto di spostamento, salvo alcune eccezioni; divieto che si configura, perciò, in un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare e come tale limitativo del diritto di libertà personale, rilevandosi come la possibilità di spostamento per comprovate esigenze lavorative veniva riconosciuto unicamente ai lavoratori che esplicavano la propria attività nell'ambito dei c.d. servizi essenziali, mentre tutte le restanti attività economiche erano state sospese.

Per la nostra Costituzione uno dei diritti fondamentali, il più importante, è costituito dalla libertà personale.

Infatti, dopo l'art. 3, che sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini, la Carta Costituzionale indica una serie di diritti inviolabili, fra i quali pone al primo posto quello della libertà personale, l'art. 13, il quale nei primi tre commi dispone:

“La libertà personale è inviolabile.

Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore ali-autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. sancendo cosi l'inviolabilità della persona (habeas corpus) nei confronti di potenziali abusi delle pubbliche autorità e richiedendo la sussistenza di precisi presupposti giuridici per poterne limitare la libertà.

Esso si presenta, cioè, non "come illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensì come diritto a che l'opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato è titolare, non sia esercitato se non in determinate circostanze e col rispetto di talune forme” (Corte Cost. sentenza n. 11/1956). Nel nostro ordinamento giuridico, l'obbligo di permanenza domiciliare configura una fattispecie restrittiva della libertà personale e, in quanto tale, può essere irrogata solo dal Giudice con atto motivato nei confronti di uno specifico soggetto, sempre in forza di una legge che preveda "casi e modi”. Quindi, "in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni" (Corte Cost. sentenza n. 11 del 19 giugno 1956), avendo il Costituente posto a tutela della inviolabilità personale tre garanzie:

a) la riserva di legge assoluta, per cui solo il legislatore può intervenire in materia e porre dei limiti;

b) la riserva di giurisdizione, potendo solo l'autorità giudiziaria emettere provvedimenti restrittivi delia libertà personale;

c) l'obbligo di motivazione, dovendo essere esplicitate le ragioni alla base dei provvedimenti restrittivi.

Perciò, il vietare ad una persona fisica ogni spostamento anche all'interno del territorio in cui vive o si trova, configurandosi quale vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, a mente dell'art. 13 Cost., richiede una specifica disposizione legislativa e un atto motivato dell'autorità giudiziaria.

Consegue, allora, che un DPCM, fonte meramente secondaria, non atto normativo, non può disporre limitazioni della libertà personale, come invece disposto dal DPCM dei 8/3/2020, ove sono adottate le misure volte ad evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori previsti dai medesimo decreto, nonché all'interno dei medesimi territori, e successivamente estese a tutto il territorio nazionale dal DPCM 09.03.2020, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute” ed una siffatta previsione viola all'evidenza il citato art. 13 Cost.

Altro diritto che risulta violato è quello della libertà di circolazione, di cui all'art. 16 Cost., in forza del quale “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente: in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza [...]”.

L'art. 16, come è dato leggere, afferma e tutela la libertà di circolazione dei cittadini, cioè la libertà di muoversi liberamente da un luogo ad un altro, senza necessità alcuna di richiedere permessi o render conto ad alcuno dei motivi dei propri spostamenti, e, nel far salve le limitazioni a tale libertà, pone dei limiti alla discrezionalità del legislatore, predeterminando già alcuni contenuti che la legge deve avere, c.d. principio di riserva di legge rinforzata, in quanto la libertà di circolazione e soggiorno può essere impedita solo in via generale, nel senso che l'inciso “limitazioni che la legge stabilisce in via generale" “debba essere applicabile alla generalità dei cittadini, non a singole categorie" (cfr. Corte Cost. n. 2/1956), e per motivi di sanità e sicurezza, principio che comunque impedisce restrizioni stabilite sulla base di atti aventi natura diversa dalla legge statale.

Le limitazioni sono dunque garantite da una riserva di legge, con la conseguenza che solo atti aventi valore primario possono prevederle (legge, decreto legge e decreto legislativo) e non provvedimenti aventi natura amministrativa, quali sono per l'appunto i DPCM.

Per altro, come già in precedenza rilevato, il Decreto Legge del 23.02.2020 n. 6, convertito, con modifiche, dalla legge del 05.03.2020 n. 13, nell'attribuire alle autorità competenti il potere di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica”, faceva riferimento ad alcune zone specifiche, alle zone c.d. “rosse", e non già all'intero territorio nazionale e, né in sede di conversione del decreto, né con altra fonte primaria, è dato rinvenire alcuna estensione, tant'è che il DPCM dell'08.03.2020 si applicava solo alla nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell'Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, mentre solo con il DPCM del 09.03.2020 venivano estese le disposizioni del primo DPMC a tutto il territorio nazionale.

Consegue, allora, che le misure limitative alla libertà di circolazione di cui ai successivi DPCM risultano essere prive di fondamento legislativo di rango primario, in patente violazione, quindi, della stessa riserva di legge di cui all'art. 16 Cost.

Né può costituire fonte di rango primario l'art. 2 del decreto DL n. 6/2020 (“Ulteriori misure di gestione dell'emergenza - 1. Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1”) ove quel semplice rinvio a “ulteriori misure", senza specificazione alcuna in ordine alla tipologia, misure atipiche, diverse da quelle previste dall'art. 1, costituisce di fatto un vulnus ed elusione alla riserva di legge imposta dall'art. 16 Cost.

Non può invocarsi, al fine di attribuire efficacia e legittimità dei DPCM 08.03.2020 e 09.03.2020, la clausola di salvezza degli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del DL n. 6/2020, contenuta nell'art. 2 comma 3 del DL del 25.03.2020 n. 19, prevista a fronte dell'espressa abrogazione del DL n. 6/2020, già convertito con la L. 5.03.2020 n. 13, ad eccezione degli articoli 3, comma 6-bis, e 4, ma comprovante la carenza della disciplina dettata dall'art. 2 del DL n. 6/2020, in merito alla mancata specificazione contenutistica dei DPCM.

Difatti, benché l'art. 2 comma 3 del D.L. n. 19/2020 faccia salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanate ai sensi del DL n. 6/2020, si ritiene che tale clausola non possa incidere sulla invalidità derivata di cui sono, comunque, affetti i provvedimenti nel frattempo emanati, tra cui per l'appunto i DPCM e i conseguenziali atti amministrativi, considerato che il principio di legalità presuppone che la norma abilitante preceda e non segua quella abilitata e che il nesso tra la situazione emergenziale e le misure adottate deve essere rigorosamente individuato, in modo che possa essere rispettato il criterio di proporzionalità e adeguatezza a superare l'emergenza e a ripristinare la normalità sociale e costituzionale. D'altro canto, proprio la salvezza degli effetti di atti invalidi, in quanto derivanti da fonte normativa (DL n. 6/2020) costituzionalmente illegittima (per violazione dei principi di riserva di legge e di legalità) determina la stessa illegittimità costituzionale dell'art. 2 comma 3 del DL n. 19/2020, ciò in quanto esso si pone in rapporto di reiterazione implicita del DL n. 6/2020, che continua così a fungere da base legale (non conforme alia Costituzione) dei DPCM emanati ed emandandi.

Peraltro, si deve notare come nel corso della gestione della situazione emergenziale, il Governo abbia proceduto a ripetute e successive proroghe dello stato di emergenza, che hanno previsto ad oggi come termine ultimo il 31.03.2022, il che dimostra, in realtà, il passaggio dallo stato di emergenza epidemiologico alla gestione ordinaria dell'epidemia, con il conseguente venir meno dei presupposti di temporaneità e, dunque, di straordinarietà giustificativi dell'adozione dei decreti legge e conseguentemente dei DPCM. Non si può non evidenziare come, con il protrarsi dell'emergenza, si sia assistito al continuo riutilizzo della decretazione di necessità e di urgenza, benché tale “modus operandi" non possa più essere assolutamente considerato una situazione straordinaria e temporanea, determinando una lesione delle prerogative del Parlamento, a cui viene di fatto assegnato il ruolo di mero ufficio di conversione in legge dei decreti del Governo.

Peraltro, occorre rilevare come, a distanza di due anni del suo inizio, uno stato di emergenza prorogato per accordo politico - anzi per negoziazione fra parti dello Stato - è una contraddizione in termini, in quanto “normalizza" l'eccezionalità, per cui non servono più situazioni impreviste ed eventi fuori dall'ordinario e basta il principio della precauzione per invocare poteri speciali e non più emergenziali.

Pertanto, al netto di tutte le considerazioni già svolte in merito alla illegittimità della dichiarazione di emergenza a far data dal 31.01.2020, inficiante tutte le successive proroghe, non può non evidenziarsi il venir meno dei presupposti di temporaneità, straordinarietà e necessità, posti a base della concatenazione normativa e amministrativa posta in essere dall'Esecutivo.

Il Governo ha deliberato lo stato di emergenza in forza dell'art. 24 del D.Lvo n. 1/2018, il quale - nel prevedere in modo esplicito il termine di durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale - dispone, al quarto comma, che esso non può superare i 12 mesi ed è prorogabile per non più di ulteriori 12 mesi.

Sennonché, lo stato di emergenza è stato dichiarato (nella sua prima fase genetica per la minor durata di sei mesi) dal 31.01.2020 al 31.07.2020, per poi essere prorogato con deliberazione del Consiglio dei Ministri del 29.07.2020 (quale primo atto di proroga), cui sono seguite le successive proroghe sino al 15 ottobre 2020, poi al 31 gennaio 2021, poi al 30 aprile 2021, al 31 luglio 2021, al 31.12.2021 e infine al 31.03.2022.

Da ciò si deduce che il termine massimo di proroga di 12 mesi previsto dal codice della protezione civile è spirato il 31.07.2021 e che il DL n. 105/2021 (che ha prorogato lo stato di emergenza al 31.12.2021) ed il DL n. 221/2021 (che ha prorogato lo stato di emergenza fino al 31.03.2022), nonché tutti i Decreti legge e provvedimenti amministrativi medio tempore emessi a far data dal 31.07.2021, si pongono al di fuori del “circuito di legittimazione offerto dalla dichiarazione di emergenza” ed eludono il disposto del su citato art. 24 comma 3 D.Lvo n. 1/2018 (Cfr. M. Calamo Specchia, relazione scritta audizione dei 06.10.2021 in Commissione Affari Costituzionali del Senato della Repubblica).

Peraltro, anche qualora si dovesse interpretare la norma de qua nel senso di attribuire allo stato emergenziale nazionale la durata massima di 24 mesi, il termine decorrente dal 31.01.2020 giunge comunque a scadenza il 31.01.2022, con il ché la proroga ultima al 31.03.2022 si pone comunque in contrasto con la norma succitata - eludendola - evidenziandosi come nel nostro ordinamento giuridico non sia ammessa l'introduzione di un diritto speciale del diritto speciale.

Infine, va da sé che il requisito della temporaneità risulta facilmente aggirabile attraverso il meccanismo della reiterazione del decreto-legge, non coperto dalla dichiarazione di emergenza, evidenziandosi come la mancanza della stessa dichiarazione di emergenza determini il venir meno del presupposto giustificativo della deroga ai diritti fondamentali.

D'altro canto tale deroga non può proseguire oltre, anche alla luce della sentenza n. 213/2021 della Corte Costituzionale, la quale in tema di proroga del blocco degli sfratti per morosità, riconosce che, trattandosi di una misura dal carattere intrinsecamente temporaneo in quanto destinata ad esaurirsi entro il 31 dicembre 2021, non vi è possibilità di ulteriore proroga, atteso che la compressione de! diritto di proprietà ha raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale (articolo 42, secondo comma della Costituzione).

Ma se si è pervenuti ad una tale enunciazione con riferimento al diritto di proprietà, riconosciuto dall'art. 42 Cost., a maggior ragione, deve pervenirsi a siffatta conclusione in merito alle libertà ed agli altri diritti fondamentali, evidenziandosi come - in questo periodo emergenziale - tutte le libertà costituzionali siano state trasformate in libertà autorizzate (cit. A. Mangia in ilsussidiario.net).

Con il susseguirsi - spesso in sovrapposizione tra loro - di decreti legge e DPCM, si è assistito all'introduzione di sempre più stringenti restrizioni e limitazioni nell'esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali, fino ad arrivare ad incidere sul diritto al lavoro e ad un'equa retribuzione, con violazione dell'art. 36 Cost., il quale riconosce al lavoratore il diritto ad una retribuzione (...) in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé ed alia propria famiglia una esistenza libera e dignitosa; nonché fino ad escludere una categoria di persone dalla vita sociale, e dunque, da tutte quelle attività che attengono alla sfera della libertà personale, intesa quale diritto di svolgere attività che sviluppino la propria dimensione psicofisica (come riconosciuta dal combinato disposto degli artt. 2 e 13 Cost.), piuttosto che alla sfera della libertà di circolazione.

Il tutto in violazione dell'art. 3 Cost., il quale, al comma 1, sancisce il principio di uguaglianza, in forza del quale "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali o sociali”, e, ai comma 2, statuisce il dovere inderogabile della Repubblica di “rimuovere (con implicito divieto di introdurre) gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Pertanto, quando si introducono misure potenzialmente lesive del principio di eguaglianza e della dignità sociale, occorre far riferimento al rispetto della persona umana, in quanto la dignità della persona è il “criterio di misura della compatibilità dei bilanciamenti, continuamente operati dal legislatore e dai giudici, con il quadro costituzionale complessivo. Sarebbe necessario, in occasione di ogni operazione di bilanciamento, chiedersi se il risultato incide negativamente sulla dignità della persona, oppure se rimane intatta la sua consistenza” (Cfr. G. Silvestri, L'individuazione dei diritti della persona, in Diritto penale contemporaneo).

Dunque, le misure con cui si comprimono i diritti e libertà fondamentali dell'uomo non debbono mai incidere sulla dignità umana e la tutela dell'interesse della salute collettiva, che con esse si intende perseguire, non può mai superare il limite invalicabile del rispetto della persona umana.

Il superamento di tale limite, oltre a porsi in contrasto con la Costituzione (se non addirittura a porsi al di fuori del perimetro della stessa), può condurre (come, in effetti, conduce) alla violazione dei Trattati Internazionali e della Carta Europea dei Diritti Fondamentali dell'Uomo, che sanciscono l'inviolabilità dei diritti fondamentali dell'uomo e della dignità della persona umana.

Infine, pur ribadendo tutte le considerazioni svolte in merito alle sopra indicate questioni di illegittimità, gli effetti di tutte le misure restrittive, adottate in questo periodo emergenziale, non possono protrarsi oltre il periodo della vigenza dello stato di emergenza, in quanto esso ha costituito e costituisce il presupposto che ne ha giustificato l'adozione.

Per cui, nel momento in cui viene meno lo stato di emergenza, i diritti e le libertà fondamentali debbono riespandersi nel loro alveo originale, poiché la compressione degli stessi ha raggiunto e superato il limite massimo di tollerabilità; compressione che non può ulteriormente protrarsi, né a tempo predeterminato, né, a maggior ragione, ad libitum, attraverso continui e reiterati prolungamenti di operatività.

In caso contrario, le libertà ed i diritti fondamentali, costituzionalmente riconosciuti e garantiti, verrebbero svuotati nel loro nucleo essenziale, e degradati, come tali, a meri simulacri.

Infine, per completezza decisione, altro aspetto di illegittimità di cui sono affetti i DPCM giova ripetere atti amministrativi, deve ravvisarsi in un ricorrente difetto di motivazione.

L'art. 3 L. n. 241 del 1990, sancisce «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato [...]. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'Istruttoria».

Il legislatore ha reso, pertanto, essenziale la motivazione, sotto l'aspetto sia testuale (deve essere motivato) che contenutistico (La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell'Istruttoria).

La motivazione dell'atto amministrativo può essere indicata anche per relationem, nel senso che essa può essere espressa anche con il riferimento ad atti del procedimento amministrativo come, ad esempio, pareri o valutazioni tecniche.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, nel caso di provvedimento motivato per relationem, sebbene non occorra necessariamente che l'atto richiamato dalla motivazione sia portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, tuttavia esso deve essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (Cfr. Consiglio di Stato sentenza n. 8276 del 3 dicembre 2019: «va ammessa la motivazione per relationem, purché l'atto [...] al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati e non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento»).

In breve sintesi, l'atto amministrativo ben può fondare la propria motivazione su un altro atto, ma a condizione che l'atto richiamato sia reso disponibile agli interessati, non si faccia riferimento a pareri in contrasto con altri pareri o con determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento.

L'art. 21 septies L. n. 241/90 sancisce, a sua volta, “E' nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali”.

Pertanto, alla luce di quanto disposto dall'art. 3 della L. n. 241/1990, deve ritenersi invalido per violazione di legge l'atto amministrativo sfornito di motivazione ovvero non esprima compiutamente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche alla base dell'atto, ovvero non indichi Tatto cui fa riferimento per la motivazione o non lo renda disponibile.

Orbene, i provvedimenti emanati per fronteggiare l'emergenza epidemiologica, oggetto del presente procedimento, hanno fatto uso per lo più proprio della tecnica della motivazione “per relationem”, con particolare riguardo ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS).

Però, come è notorio, vi sono stati casi in cui tali atti non solo sono stati resi noti dopo lungo tempo, o addirittura in prossimità della scadenza di efficacia dei DPCM, ma addirittura classificati come "riservati”, o meglio “secretati” (come i cinque verbali datati 28 febbraio, 1 marzo, 7 marzo, 30 marzo e 9 aprile 2020, del CTS, che hanno costituito la base delle misure di contenimento adottate per l'emergenza COVID, con omissione degli allegati e documenti sottoposti alle valutazioni del CTS), vanificando di fatto la stessa procedura di accesso agli atti e rendendo impossibile la stessa tutela giurisdizionale.

In sostanza, è stata posta in essere tutta una situazione che di fatto non ha consentito la disponibilità stessa degli atti di riferimento, posti a base del provvedimento, con consequenziale invalidità dello stesso provvedimento. Perciò, da quanto sopra esposto e argomentato, non si ritiene di poter dubitare della illegittimità e invalidità dei DPCM che hanno imposto la compressione di diritti fondamentali e, quindi, dello stesso DPCM del 8/3/2020, che qui interessa e degli altri atti normativi ed amministrativi conseguenti e susseguenti.

Consegue che, trattandosi di atti amministrativi e non legislativi, non soggetti al vaglio della Corte Costituzionale, affermata la illegittimità dei medesimi per contrasto con gli artt. 13 e ss. Costituzione, oltre che di altre disposizioni legislative, il Giudice deve unicamente procedere alla loro disapplicazione, in ossequio dello stesso dettato dell'art. 5 delia legge 2248/1865 all. E, in forza del quale “(...) le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.

In ragione di quanto sopra detto e argomentato, dovendosi procedere alla disapplicazione del DPCM del 08.03.2020, si deve concludere per dichiarazione di inesistenza di alcuna condotta criminosa ascrivibile in capo agli imputati, e si deve conseguentemente pronunciare sentenza di assoluzione, nei confronti degli stessi, perché il fatto non sussiste, nella formula all'evidenza più favorevole al reo, anziché perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Infatti, a fronte della depenalizzazione operata dall'art. 4 del D.L. n. 19/20, per i fatti posti in essere prima dell'entrata in vigore dello stesso, alla pronuncia di assoluzione con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, si dovrebbe poi procedere alla trasmissione degli atti al Prefetto per la comminazione della sanzione amministrativa, con pregiudizio per gli odierni imputati, stante la palese illegittimità del DPCM del 08.03.2020.

P.Q.M.

Il Tribunale in composizione monocratica

Visti gli artt. 533 e 535 cpp

Assolve

(omissis) dal reato agli stessi ascritto al capo 2) d'imputazione perché il fatto non sussiste

il testo è tratto da Diritto e giustizia del 17/05/2022
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1 commento su “Un giudice può disapplicare le leggi che gli sembrano incostituzionali?”

  1. La sentenza è stata emanata da un giudice onorario di tribunale, selezionato quindi con criteri speciali.
    Ma gli artt. 101 e 104 della Costituzione valgono per tutti i giudici, compresi quelli onorari.

    Rispondi

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