di Stefano Claudio Tani
Il Ministro della Giustizia ha dimenticato la storia, tratta da un fatto di cronaca del cinquecento tedesco, narrata da Heinrich von Kleist. Michael Kohlhass, cavallaio, uomo retto, mite e benvoluto da tutti, “uno degli uomini più probi e insieme più terribili del proprio tempo”, aveva subito un sopruso che aveva acceso in lui una sete inestinguibile di giustizia, alla quale si era rivolto, percorrendone tutti gradi e le istanze, accompagnato dal favore del popolo, perché gli fossero restituiti, nelle stesse condizioni, i cavalli che un nobile prepotentemente gli aveva sequestrato.
La sete di giustizia andò incontro ad altri soprusi e si trasformò in sete di vendetta, provocando una ribellione istintiva, violenta e fatale, che trasformò Michael Kohlhass in “brigante e assassino” fino alla pubblica esecuzione della pena di morte, di fronte a una folla che attendeva il miracolo della grazia. La morte di Michael Kohlhass si trasformò nel trionfo del condannato che aveva voluto con tutte le sue forze che con i beni gli fosse restituito l’onore, garantita la discendenza e umiliato il potente che per primo aveva violato la legge e offeso la sua dignità di cittadino onesto.
La parabola di Michael Kohlhass è quella dell’abuso perpetrato da tutti i potenti, dal nobile, dal principe, dal sovrano, dal cancelliere e infine dal giudice che applicò i principi della giurisprudenza non per ristabilire la giustizia violata, ma l’ordine violato dalla ribellione del cavallaio. La necessità imponeva di “annientare il cavallaio, la cui causa come noto era sacrosanta,” proprio perché “non si sollevasse il velo su una serie di crimini che, dato il loro proliferare incalcolabile, erano ormai troppi per comparire alla sbarra al cospetto del trono della giustizia”.
La vicenda di casa nostra dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio, è miserevole per tutti, anche per quelli che pur a parole contrari saranno tuttavia contenti di poterne usufruire; niente a che vedere con la lucidità della tragedia che segna la trama che accompagna l’eroe descritta da von Kleist, ma soltanto con la miseria etica e culturale di un sistema politico clientelare di castaldi in sedicesimo che caratterizza l’Italia da sempre. Sinora nessuno aveva avuto però il coraggio di eliminare dal sistema il concetto stesso di abuso.
“Abusus non est usus sed corruptela” ci avevano insegnato all’università. L’abuso d’ufficio è una pratica simoniaca, un mercimonio dei diritti trasformati in favori e di favori trasformati in diritti e quindi oggetto di scambio. Non c’entra nulla la compassionevole scusa della “paura della firma” di personaggini che non si sa allora perché brigano con tutte le loro forze, facendo finta di sacrificarsi, per accedere a questa o a quella carica.
Se il sistema legislativo e amministrativo è elefantiaco e incomprensibile è perché si è voluto che fosse tale. Un paese con troppe leggi è un paese massimamente corrotto, proprio perché lascia a vantaggio del potere privato e pubblico senza distinzione, compreso quello giudiziario, il massimo di manovra e di interpretazione applicativa, contro cui il cittadino che non ha le protezioni, secondo necessità in più o meno “alto loco”, è impotente.
È più facile e conveniente per i governi colpire con arcigna intolleranza e con nuove fattispecie e aumenti di pena i deboli, gli emarginati di ogni tipo, i “criminali per inerzia”, ai quali si applicano misure restrittive della libertà senza alcun presupposto specifico che le giustifichi. Non è una sorpresa, perché al passo con questi tempi, che nei confronti dei nuovi emarginati sociali si avverta l’inconscio richiamo alla definizione di “proclivi a delinquere” di cui all’art. 1, n.3, l.n.1423/1956, dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n.177 del 1980.
I magistrati non fanno parte di un limbo di anime innocenti e non battezzate e anche loro commettono soprusi gravi, quando abusano del potere ben più insidioso, perché apparentemente neutrale, della giurisdizione. Anche la più bella e la più perfetta delle leggi, in mano al giudice disonesto, può essere forzata e distorta a proprio vantaggio. Non si deve temere soltanto lo sporadico giudice corrotto, ma ben di più il giudice disonesto intellettualmente e obbediente al potere. Michael Kohlhass fu vittima anche di questa specie mai estinta di giudice.
La storia è sempre quella. Il sovvertimento dell’ordine costituito, anche quando dovrebbe servire a instaurare un nuovo regime basato sull’uguaglianza e sulla parità di diritti, deraglia rapidamente e finisce come nella orwelliana Fattoria degli animali, dove “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, dove i maiali, guidati da Napoleon e da Snowball, prendono il sopravvento e si impongono con prepotenza e brutalità su tutti gli altri.
Ma noi non abbiamo niente da temere. Non vi è alcun ordine costituito da sovvertire e nessuno si sogna di farlo. L’ italiano non è il popolo delle rivoluzioni, ma quello del coro dell’Adelchi: “…un volgo disperso che nome non ha … il forte si mesce col vinto nemico, Col novo signore rimane l’antico …”. E cosi continuerà perché, nel nostro piccolo, abrogare l’abuso d’ufficio va bene al nuovo signore e all’antico, alla nuova e alla vecchia maggioranza. E nessuno insorgerà, tranne che a parole, contro i grandi e piccoli soprusi; nemmeno l’ordine giudiziario, a parte qualche soldato giapponese al quale non hanno detto che la lotta alla mafia è finita in via D’Amelio.