di Glauco Nori
In un periodo complicato, come l’attuale, la semplificazione dei termini delle questioni dovrebbe essere utile per chi vuole, se non risolverle, almeno avvicinarsi alla soluzione. Tra le più dibattute continua ad essere quella delle concessioni balneari.
Prima dell’entrata in vigore della Direttiva dell’Unione contestata, delle concessioni si era sentito trattare quasi in sordina. Era sorta la convinzione in buona parte dell’opinione pubblica che per il diritto interno tutto fosse regolare e che solo l’Unione avesse fatto sorgere il problema.
Per evitare equivoci, si partirà da nozioni che si dovrebbero dare per scontate. La spiaggia è classificata come bene demaniale dall’art.822 c.c. e per l’art.823 non può costituire oggetto di diritti a favore di terzi se non nei limiti fissati dalle leggi che li riguardano. In Italia le concessioni sono soggette a discipline prevalentemente amministrative, che qui non interessano, perché la questione va prima affrontata sul piano costituzionale.
Alcune durano da più di cinquanta anni, quasi tutte oltre il decennio, rinnovate alla scadenza. Già prima che se ne interessasse l’Unione Europea era stata rilevata, quasi timidamente, la necessità delle gare. Che la questione non sia stata portata davanti al Giudice è stato a suo tempo spiegato con difficoltà di ordine processuale. Forse anche per questo una verifica della situazione secondo il principio costituzionale di uguaglianza in pratica è mancata. Si è consentito all’Amministrazione di individuare, secondo suoi criteri discrezionali, il soggetto che utilizza un bene pubblico per fini economici senza che altri possano concorrere. In pratica, è stata l’Amministrazione che ha deciso, in pratica senza vincoli, chi viene ammesso ad una attività di impresa.
Che rimanga coinvolto il principio di uguaglianza dovrebbe essere fuori discussione. Per attuarlo, qualcuno avrebbe dovuto richiedere la gara, facendo poi valere le sue ragioni in caso di diniego. Prima di allora non era individuabile il soggetto titolare dell’interesse da far valere avanti al Giudice. Se il soggetto non è individuabile, in Italia non è possibile sollevare la questione; si può solo sollecitare l’Amministrazione perché intervenga direttamente, alquanto improbabile quando è proprio l’Amministrazione che ha creato il problema.
La questione, dunque non è sorta con la Direttiva comunitaria che non ha fatto che sollecitare l’Italia a rispettare il suo diritto costituzionale. Come si è accennato, già prima se ne era parlato, ma in via informale e l’opinione pubblica non ne era rimasta informata. La risposta, anche essa informale, fu che, in mancanza di una contestazione davanti ad un Giudice, non c’era motivo di intervenire. Alla contro-obiezione delle difficoltà processuali a sollevarla, non si ritenne di replicare.
Uno degli argomenti, che continuano ad essere fatti valere, è che i concessionari hanno fatto investimenti rilevanti. Gli investimenti sono stati notevoli anche perché le concessioni sono durate a lungo, in pratica senza scadenza. In proposito la Corte di Giustizia ha fornito un argomento ai concessionari, dichiarando che ad essi non competerebbero indennizzi per gli impianti che lasciano. Rientrando nell’ordinamento italiano, l’argomento resterebbe superato: perché sarebbe consentito prevedere un indennizzo, a carico dei successori, pari al valore degli impianti, nelle condizioni in cui si trovano, sempre che siano stati predisposti legittimamente.
Nel rapporto tra diritto comunitario e diritto interno non dovrebbero sorgere contrasti perché la deroga parziale a quanto deciso dalla Corte di Giustizia sarebbe dovuta all’applicazione di un principio costituzionale inderogabile, senza pregiudizio degli interessi individuali dei concorrenti.
Nello stesso tempo andrebbero richiesti canoni minimi corrispondenti alle condizioni di mercato con la possibilità per i partecipanti di offrirli in misura superiore. Non si avrebbe nemmeno perdita di posti di lavoro che resterebbero necessari nella stessa misura, a parità di servizi.
Diventa irrilevante il rapporto tra le superfici concesse e quelle a disposizione del pubblico. Non si tratta di accertare se le prime sono in eccesso rispetto alla seconde, ma solo se queste ultime vadano messe a gara, qualunque ne sia l’estensione.
Ora che la questione è sorta davanti al Giudice Comunitario, sembra il caso di affrontarla anche dal punto di vista del diritto interno. Non farebbe una bella figura l’Italia se fosse l’intervento dell’Unione a fargli rispettare una norma della sua Costituzione.