di Roberto Bin

La vicenda legata all’espulsione di Najeem Osema Almasri Habish è proccupante per la tenuta delle nostre istituzioni costituzionali. Non la ripercorro, perché da giorni non si parla d’altro: anche se alcuni elementi fattuali vengono distorti e vanno messi a fuoco.
C’è da dire che la vicenda è oggettivamente complicata. Come spiega l’ordinanza della Corte di appello di Roma che ha ordinato la scarcerazione, vi è stato un errore di procedura della polizia giudiziaria di Torino, che non ha seguito la speciale procedura prescritta dalla legge 237/2012 (“Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”). Questa speciale procedura non prevede che la polizia giudiziaria agisca direttamente, ma che sia il Ministro della Giustizia a ricevere le richieste provenienti dalla Corte dell’Aia, e quindi a trasmettere gli atti alla procura generale presso la corte d’appello di Roma, con richiesta di applicazione della misura cautelare. In assenza della richiesta del Ministro la procedura non è valida e si applicano tutte le garanzie che l’art. 13.3 della Costituzione assicura contro gli arresti arbitrari.
Il problema “formale” appare abbastanza chiaro: quello che non è chiaro è perché il Ministro della Giustizia non abbia agito secondo la legge e richiesto l’arresto di Almasri, avendo ricevuto tempestivamante la comunicazione dell’arresto da parte della DIGOS di Torino. Questa è una scelta politica di cui il Governo e il Ministro della Giustizia devono rispondere in Parlamento; così come devono rispondere, assieme al Ministro degli Interni, del successivo decreto di espulsione di Almasri, che era un provvedimento non necessitato e alternativo ad un nuovo ordine di arresto ritualmente promosso dal Ministro di Giustizia. Nel procedimento di esecuzione del mandato di arresto della Corte penale internazionale l’intervento del Ministro segna il carattere politico della decisione (quel carattere politico che il Ministro degli Esteri Tajani ha sintetizzato con la grave affermazione: “non è che chi governa all’Aja è la bocca della verità, si possono avere anche visioni diverse”). Ma che sia una valutazione politica non significa affatto che il Governo può fare quello che vuole senza rispondere a nessuno: il Governo e i ministri devono risponderne in Parlamento. Questo è un principio insuperabile di un sistema costituzionale come il nostro.
E invece il Governo cerca di distogliere l’attenzione buttandola in rissa. La comunicazione inviata dal procuratore del tribunale del distretto della corte d’Appello in merito alla denuncia dell’avv. Li Gotti per la vicenda Almasri, che è un atto dovuto che non presuppone alcuna valutazione nel merito, viene rivenduta dalla Presidente del Consiglio come un “avviso di garanzia”, una dimostrazione di più dell’accanimento delle “toghe rosse” contro chi vuole migliorare il Paese realizzando la “separazione delle carriere” che gli italiani hanno richiesto con il voto… Immediatamente le cornacchie si alzano in volo e riempiono del loro verso sempre eguale (“toghe rosse, toghe rosse…”) ogni spazio raggiungibile dai canali radiotelevisivi, sempre pronti a fare da eco alla voce del Governo. E così si copre la notizia del rinvio della “informativa” dei Ministri Nordio e Piantedosi in Parlamento: che per una democrazia costituzionale è un fatto gravissimo.