Taglio dei Senatori: chi perde (la Basilicata) e chi guadagna (la Valle d’Aosta) in termini di rappresentanza

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di Francesco Conte

Il taglio dei parlamentari non è uguale per tutti. Almeno non in Senato. La riforma, infatti, comporterà alcune distorsioni (o, se vogliamo, correggerà alcune distorsioni già esistenti) nel rapporto tra popolazioni regionali e senatori che ne sono espressione. Se, infatti, per la Camera dei Deputati il taglio è pressoché “lineare” e identico per tutte le circoscrizioni, in Senato non sarà così.

I motivi principali risiedono nelle peculiarità già presenti in Costituzione per l’elezione del Senato: il vincolo della “base regionale” per l’elezione dei senatori (art. 57, primo comma); la previsione di una “soglia minima di rappresentanza” per ciascuna Regione; la previsione di un numero precostituito di Senatori per il Molise e la Valle d’Aosta.

Partiamo con ordine.

Prima di tutto: il numero complessivo di senatori elettivi si riduce da 315 a 200. Escludendo quelli eletti nella circoscrizione Estero, i senatori passeranno 309 a 196, con una riduzione che dunque si attesta attorno 36%.

A fronte di questa riduzione media, la Valle d’Aosta e il Molise manterranno però lo stesso numero di senatori (rispettivamente uno per la Valle d’Aosta e due per il Molise) e il Trentino-Alto Adige perderà un solo senatore su sette (una riduzione pari a circa il 14%).

Se, da una parte, sarebbe stato impossibile ridurre i senatori della Valle d’Aosta e del Molise del 36% (ma una delle proposte discusse in Senato prevedeva la riduzione dei senatori molisani a uno soltanto), per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige, i motivi risiedono altrove. Il testo vigente della Costituzione, infatti, attribuisce ad ogni Regione il numero minimo di sette senatori (appunto con l’eccezione di Molise e Valle d’Aosta). Nella proposta di riforma, il numero minimo scende a tre, ma la salvaguardia è estesa anche alle province autonome (ovvero Trento e Bolzano). In altre parole, il Trentino-Alto Adige attingerà “due volte” (separatamente per le sue due Province autonome) a quella che potremmo definire “clausola di rappresentanza minima”. La previsione è volta a garantire il rispetto della “misura 111” contenuta nell’elenco di impegni assunti dallo Stato Italiano nei confronti delle popolazioni alto-atesine con il cd. “Pacchetto”, approvato dal Parlamento il 4 e 5 dicembre 1969.

Per converso, proprio la riduzione da sette a tre del numero minimo di senatori spettante ad ogni Regione (e, domani, anche alle due Province autonome), comporta una seconda importante distorsione, rispetto alla ripartizione attuale, a danno delle “altre” Regioni più piccole. Il taglio del numero minimo di senatori è infatti ben più consistente del 36% (coincide con circa il 57%). Questo implica che, per alcune Regioni, l’effetto del taglio sarà molto più incisivo rispetto a quello medio.

In particolare, a subire la riduzione (in percentuale) più significativa, saranno l’Umbria e la Basilicata che, appunto, passeranno entrambe dagli attuali sette ai futuri (se la riforma entrerà in vigore) tre senatori (-57%).

Altre due Regioni, che pure oggi hanno un numero di senatori pari alla “soglia minima” (Abruzzo e Friuli-Venezia Giulia) ma che hanno una popolazione più numerosa, subiranno in concreto una riduzione meno rilevante, ottenendo (sulla base dell’ultimo censimento) quattro senatori a fronte degli attuali sette.

In generale, gli effetti della riforma avranno un impatto maggiore sulle Regioni “più piccole” (quelle con una popolazione inferiore a un milione e mezzo di abitanti).

Prima di tentare di “misurare” la distorsione che tali modifiche potranno avere sul peso del voto dei cittadini residenti nelle diverse Regioni, è opportuno evidenziare un aspetto: già nell’assetto attuale, non esiste una piena proporzionalità tra popolazioni regionali e Senatori espressi da ciascuna Regione. Infatti, il numero minimo di Senatori fissato a sette (tranne che per Molise e Valle d’Aosta), comporta una “sovrarappresentazione” di alcune Regioni, tra cui quelle che oggi sono più penalizzate dal taglio.

In particolare, rispetto ad una media di 0,52 senatori per 100.000 abitanti, l’Umbria ne ha 0,72 e la Basilicata addirittura 1,21.

Nel caso in cui la riforma fosse approvata, all’esito del referendum, il numero di senatori per 100 mila abitanti complessivamente scenderà a 0,33, ma la Valle d’Aosta avrà un rapporto di 0,78 ed il Molise di 0,63.

Queste differenze, d’altra parte, sono insite nella previsione di una soglia di rappresentanza minima regionale presente fin dal testo originario dell’art. 57 Cost. (e si sono anche accentuate per effetto delle successive modifiche).

Per tentare di misurare matematicamente lo scostamento rispetto alla media del rapporto tra numero di senatori e abitanti, si possono individuare due indicatori: 1) il “peso rappresentativo regionale”, determinato con la percentuale di senatori assegnata a ciascuna regione rispetto al totale dei senatori elettivi; 2) il rapporto percentuale della popolazione regionale rispetto a quella nazionale.

Calcolando il rapporto di questi due indicatori (che potremmo definire “peso rappresentativo regionale ponderato”) è possibile avere un’idea chiara dell’eventuale sovrarappresentazione o sottorappresentazione in Senato di una Regione rispetto alle altre. Quanto più il risultato sia vicino a “1”, tanto più la rappresentazione della Regione sarà vicina alla media. Quest’ultimo indicatore quantifica anche (approssimativamente) il peso di un elettore in base alla Regione di residenza.

Applicando questi indicatori a tutte le Regioni, sia in riferimento all’attuale ripartizione di Senatori, sia in riferimento alla ripartizione conseguente alla proposta di riforma, è possibile tracciare una sorta di classifica delle Regioni più rappresentate in relazione alla propria popolazione.

Secondo l’attuale ripartizione, la Regione meno rappresentata (ma comunque prossima alla media) è la Sardegna con un rapporto di circa 0,93 tra percentuale di senatori assegnata e percentuale della popolazione. La più rappresentata è, invece, la Basilicata con un rapporto di 2,32. A seguire, l’Umbria (1,52), la Valle d’Aosta (1,51), il Trentino-Alto Adige (1,30), il Molise (1,22) e il Friuli-Venezia Giulia (1,1). Per le altre Regioni, il valore del rapporto è molto vicino all’1.

Applicando gli stessi indicatori alla ripartizione prevista dalla riforma, la “classifica” muta notevolmente: mentre la Sardegna rimane piantata all’ultima posizione (diminuendo ulteriormente il rapporto, che scende a 0,92) appaiata all’Abruzzo e alla Calabria, la regione più rappresentata diventa la Valle d’Aosta (che non subendo “tagli” ottiene un rapporto di 2,39 tra percentuale dei senatori assegnati e percentuale della popolazione), seguita dal Molise (1,93), dal Trentino-Alto Adige (1,76), dalla Basilicata (1,57) e dall’Umbria (1,02).

Ottenuti questi indicatori, è anche possibile quantificare il “guadagno” o la “perdita” di rappresentanza di ciascuna Regione nell’eventualità che la riforma sia approvata, semplicemente calcolando la variazione tra il rapporto attuale e quello “futuro”. Mentre la Valle d’Aosta (+0,87), il Molise (+0,70) e il Trentino (+0,45) incrementerebbero significativamente il proprio “peso”, l’Umbria (-0,49) e – soprattutto – la Basilicata (-0,75) pagherebbero più di tutte le altre in termini di rappresentanza.

Nonostante questa significativa “perdita”, tuttavia, entrambe le Regioni manterrebbero un rapporto tra percentuale di Senatori assegnati e percentuale di popolazione superiore (nel caso della Basilicata molto superiore) a 1 (e quindi, una rappresentanza “ponderata” superiore alla media).

In altre parole, con la riforma, la Basilicata e l’Umbria vedrebbero significativamente ridotta una distorsione che attualmente è a loro favore, mentre, complessivamente, le Regioni “sovrarappresentate” passerebbero da 6 a 4.

Una chicca per rivangare antichi campanilismi mai sopiti: il voto di un elettore molisano varrà più del doppio di quello di un elettore abruzzese.

(revisione dati con il contributo di Enrico Conte)

 

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