di Roberto BinNei giorni passati le vicende della formazione del Governo Conte hanno suscitato commenti, giudizi, critiche che hanno posto al centro dell’attenzione i poteri del Presidente della Repubblica e i vincoli costituzionali. Molti i commenti che si sono susseguiti anche in questo giornale, sia sulla legittimità del rifiuto di Mattarella di nominare il ministro dell’economia “proposto” da Conte sia sulla sua opportunità. Ora che la questione si è raffreddata merita riproporla per una riflessione più posata. Anche perché alcuni nodi restano irrisolti e questo minaccia di accendere altre crisi costituzionali, prevedibili come in fondo lo è stata quella appena sopita.
Quel che dice la Costituzione lo si sa: il Presidente della Repubblica nomina i ministri su proposta del Presidente (che lui ha) incaricato. L’incarico lo ha conferito dopo le consultazioni, avendo accertato quale sia la personalità che può coagulare una maggioranza in Parlamento, visto che dieci giorni dopo la nomina il Governo dovrà presentarsi alle Camere per la fiducia. La scelta dell’incaricato – si dice perciò – non è “libera” ma “discrezionale”, ossia vincolata al fine di nominare un Governo che possa ottenere la fiducia.
Che un soggetto proponga e l’altro nomini i ministri significa che entrambi svolgono una funzione, ossia una valutazione autonoma. Quello che si discute è in cosa consista e che ampiezza abbia la valutazione riservata al Presidente della Repubblica. I manuali più qualificati in maggioranza suggeriscono che la proposta dell’incaricato sia vincolante e questo ha indotto alcuni a chiudere sbrigativamente la questione nel senso di negare una vera autonoma valutazione del Presidente della Repubblica. Ma si tratta di una lettura sbrigativa, perché la proposta è vincolante – e sicuramente lo è – nel senso che il Presidente della Repubblica non potrebbe nominare un ministro diverso da quello proposto: ma non significa anche che non possa rifiutare di nominare il ministro proposto.
Qui subentra l’argomento delle prassi. Più volte il Presidente della Repubblica ha rifiutato la nomina del ministro proposto: si ricorda Pertini che rifiutò di nominare politici iscritti alla Loggia P2, si ricorda Scalfaro che rifiutò di nominare Previti a ministro della giustizia, e altri casi “minori”, cioè meno espliciti o clamorosi (vedi per esempio l’articolo del Sole-24 ore e l’articolo di Salvatore Curreri qui pubblicato). Però, si obietta, in tutti questi casi la motivazione del gesto del Presidente non era “politica”, ma quasi “tecnica”, nel senso che si basava su argomenti legati a giudizi penali pendenti o a valutazioni di compatibilità “morale”: insomma mai un Presidente della Repubblica avrebbe opposto motivazioni di natura “politica”, come sarebbero invece quelle che avrebbero spinto Mattarella ad opporsi alla nomina di Savona.
L’appello alle prassi è sempre da prendere con le molle. È vero, mai – a quanto sembra – il rifiuto del Presidente si è basato su argomentazioni politiche. Allora? Le prassi citate e stracitate dimostrano soltanto che il Presidente può rifiutare la nomina di un ministro, non anche che lo possa fare soltanto per motivi non politici. Semplicemente non è mai capitato che lo abbia fatto. E su questo dato bisogna riflettere.
La singolarità della formazione del Governo Conte non nasce dal rifiuto di Mattarella, ma ben prima. Mai nella storia repubblicana il Governo si è formato anticipando ogni passo del percorso politico-istituzionale sulla stampa e nei social; mai il Presidente della Repubblica è stato messo di fronte a decisioni dei partiti giù rese pubbliche e solo dopo “ritualmente” presentate al Quirinale: l’ha messo bene in luce Lara Trucco in questo giornale. Chi vuole intendere correttamente che cosa contano le prassi nella definizione dei poteri presidenziali dovrebbe partire da questa constatazione. Se il Presidente Mattarella avesse accettato la nomina di Savona imposta con prepotenza e pubblicamente dalle forze politiche in via di formare la maggioranza, allora sì che avrebbe dato corso ad un precedente che in seguito qualcuno avrebbe potuto invocare come prassi: il precedente avrebbe indicato che il Presidente della Repubblica non può rifiutare di nominare un ministro proposto dal Presidente incaricato per motivi “politici”, ma solo per questioni giuridico-morali. E questa “prassi” legittimerebbe anche l’atteggiamento dei partiti che – come nella vicenda del Governo Conte – si movessero in palese spregio di tutti i principi e le regole, le consuetudini e le prassi che ci dicono che i rapporti tra le istituzioni costituzionali devono essere ispirate da leale cooperazione, rispetto reciproco, correttezza e fair play.
Queste sono norme e principi che bisogna vengano rispettati anche dagli elefanti che entrano nella cristalleria costituzionale: qualcuno lo deve imporre. L’assetto costituzionale è fatto di relazioni e equilibri fragili: che le forze politiche si muovano senza consapevolezze e rispetto è inaccettabile. Ed è proprio questo che Mattarella ha preteso di esprimere (come ho sostenuto in un articolo precedente).
C’è un gesto di Mattarella che al momento mi ha sorpreso e anche disturbato: quando è presentato in sala stampa a spiegare perché Conte avesse rinunciato all’incarico, facendo esplicito riferimento al “caso Savona”. Mai era successo prima che quanto detto nel colloquio riservato tra Presidente della Repubblica e presidente incaricato fosse reso pubblico in via ufficiale. Ma anche questo episodio rientra nella gestione complessiva della vicenda. È semplicemente scandaloso che la lista dei ministri fosse stata resa pubblica prima di essere proposta in via formale al Capo dello Stato; è semplicemente scandaloso che l’indicazione di Savona come ministro dell’economia venisse reclamizzata in anticipo come punto fermo dell’accordo politico; è semplicemente scandaloso che il rifiuto di Mattarella e la rinuncia di Conte fossero rese pubbliche con dichiarazioni ufficiali dei leader politici prima che fosse comunicata ufficialmente da Conte a conclusione dell’incontro “riservato” con Mattarella; è semplicemente scandaloso che già si fossero formulate minacce improbabili (alcuni sprovveduti hanno parlato persino di impeachment!) a Mattarella prima che l’incontro nel suo studio avesse termine. È stato un comportamento oltraggioso e inaccettabile, che Mattarella ha giustamente respinto con fermezza. Prima che diventasse una prassi catalogabile con le altre e così trasmessa alle future generazioni dagli autorevoli manuali
Nel bel mezzo di un potenziale conflitto di potere fra Presidente della Repubblica e rappresentanti di una presunta maggioranza parlamentare si è per forza menzionato l’articolo 90. Alcuni attori sprovveduti l’hanno seriamente invocato. Altri osservatori, pur condividendo le valutazioni di merito del Presidente della Repubblica, hanno immaginato le conseguenze politiche dell’uso di un suo potere di veto formale contro la proposta del primo ministro incaricato e quindi contro la presunta maggioranza parlamentare. In caso di persistente disaccordo l’unica soluzione sarebbe un ritorno alle urne con il rischio, all’occorrenza molto concreto, di un plebiscito a favore della soluzione ostacolata dal Presidente della Repubblica. Forte dei sondaggi a suo favore Salvini l’ha detto chiaro e tondo preconizzando una revisione costituzionale col fine di eleggere il Presidente della Repubblica direttamente, non per abolire il potere di veto, ma per rinforzarlo nelle mani di un capo dell’esecutivo non più moderatore ma puramente politico; e già vedeva se stesso in quel ruolo. Non assomiglia a un film già visto? Chi è il vero problema, Savona o Salvini? È stato risolto? Quale Presidente della Repubblica eleggerà un Parlamento dominato dalla Lega nel 2022?
Un articolo di Antonio Ruggeri pubblicato oggi su QFC sostiene la stessa tesi che ho difeso, a caldo, nei commenti poi censurati su questo blog. Ho analizzato il presunto diritto del Presidente della Repubblica di rifiutare, per motivi politici, la nomina di un ministro proposto dal Presidente del Consiglio incaricato e ipoteticamente sopportato dalla maggioranza parlamentare come un diritto di veto specifico pari a quello generale, problematico, contestato ma poi riconosciuto con valore solo sospensivo dalla prima Costituzione rivoluzionaria al Re. Lo scenario di risoluzione della contraddizione fra veto monocratico e potere parlamentare potrebbe essere lo stesso in entrambi i casi: la prima verifica elettorale decide chi fra i due protagonisti prevarrà. Antonio Ruggeri si domanda giustamente che cosa potrebbe accadere se il prossimo Presidente della Repubblica fosse nazional-populista e, invocando il precedente, volesse imporre le proprie preferenze al Parlamento.