Toghe rosse: ignoranza e tracotanza, gli emuli di Trump


di Roberto Bin

Che il Presidente del Consiglio (Meloni), un Vice Presidente (Salvini), e “autorevoli” senatori (Gasparri, Speranzon) e deputati (Donzelli) di maggioranza possano attaccare le “toghe rosse” e i “magistrati comunisti” che fanno “opposizione giudiziaria” al Governo (Crosetto) è una cosa scandalosa di per sé. Sembra che si sia importato in Italia un modo di “esternare” il proprio pensiero politico che emula la dissennata campagna elettorale di Donald Trump. Ci sarebbe una sola parola per qualificare questi eccessi del linguaggio politico in bocca di chi ricopre ruoli istituzionali: vergogna!

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Autonomia differenziata. Il punto di vista di una modesta esperienza diretta

di Claudio Stefano Tani 

Il decennio 1970/1980 si era aperto con la strage di Piazza Fontana e gli echi della bomba (morte di Pinelli, Calabresi e la strage alla Questura di Milano) e chiuso con la strage di Bologna; nel mezzo l’Italicus, via Fani e l’assassinio di Aldo Moro, di Guido Rossa e Walter Tobagi. In questo drammatico clima politico venivano approvati lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, il diritto all’aborto, la riforma sanitaria e si avviava l’attuazione dell’art.115 della Costituzione.  Questo il contesto alla nascita e alle prime esperienze delle Regioni a statuto ordinario, che smentirono scetticismo di molti.

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La compassionevole paura della firma

di Stefano Claudio Tani

Il Ministro della Giustizia ha dimenticato la storia, tratta da un fatto di cronaca del cinquecento tedesco, narrata da Heinrich von Kleist. Michael Kohlhass, cavallaio, uomo retto, mite e benvoluto da tutti, “uno degli uomini più probi e insieme più terribili del proprio tempo”, aveva subito un sopruso che aveva acceso in lui una sete inestinguibile di giustizia, alla quale si era rivolto, percorrendone tutti gradi e le istanze, accompagnato dal favore del popolo, perché gli fossero restituiti, nelle stesse condizioni, i cavalli che un nobile prepotentemente gli aveva sequestrato.

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La sentenza europea sull’ex Ilva mette fine alle “deroghe” all’italiana

di Michele Carducci

La sentenza della Corte di giustizia sull’interpretazione della Direttiva europea in materia di emissioni dei grandi impianti industriali (c.d. IED), resa nella causa italiana in tema di ripetute proroghe dell’installazione ex Ilva (Causa C-626/22), presenta due caratteri di novità, da non sottovalutare nella loro portata futura.

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Decreto Salva Casa e “semplificazioni” dei mutamenti di destinazione d’uso senza opere. Ma le Regioni possono reagire!

di Giacomo Menegus

Distratto dall’allettante possibilità di allestire una verandina sul giardino o sanare il più classico tramezzo abusivo, il dibattito pubblico sul c.d. “Decreto Salva Casa” (Decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69, “Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica”) ha fatto passare pressoché indenne da attenzioni un altro intervento legislativo di un certo rilievo, potenzialmente foriero – se confermato in sede di conversione – di impatti non irrilevanti sulle nostre città.

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Riforme costituzionali e legalità. Alcune riflessioni

di Glauco Nori

1. Si vuole cambiare la Costituzione: è la maggioranza a volerlo. Tenendo conto delle posizioni contrarie, è probabile che il procedimento fallirà con il referendum confermativo al quale sicuramente si dovrà arrivare. Più che un programma attuabile, sembra una iniziativa velleitaria. È stata proposta con decisione, almeno apparente, senza tenere conto degli sviluppi prevedibili, così da evitare attività e conflitti che risulteranno inutili, ma costosi.

La situazione suggerisce di richiamare alcuni principi, che dovrebbero essere dati per scontati, ma sui quali gran parte dell’opinione pubblica manca di informazione.

Cercare di modificare la Costituzione a colpi di maggioranza è sbagliato in via di principio. La Costituzione regola quegli aspetti della vita e dell’organizzazione pubblica che dovrebbero avere lo stesso rilievo per tutte le parti politiche. Oltre ad alcuni principi fondamentali, sui quali, proprio per essere tali, dovrebbe esserci un consenso generale, vi sono regolati gli strumenti per la gestione della vita dello Stato e gli strumenti di tutela delle minoranze. Con approssimazione, solo per rendere l’idea, si potrebbe dire che quelle costituzionali sono norme che garantiscono le sfere che vanno rispettate da chi si trova ad esercitare i poteri di governo, qualunque sia il suo orientamento. Non si dovrebbe dimenticare che la Costituzione del 1948 riportò il consenso di De Gasperi e Togliatti, in quanto ritenuta utile non solo per la maggioranza del momento, ma per tutti coloro che avrebbero dovuto formare un Governo.

Si obietterà che certi principi sono così scontati da non perdere tempo a ripeterli. Ma se non lo sono più, ripeterli sarà utile non naturalmente per gli esperti, ma per chi si troverà a valutare l’azione dei poteri pubblici in base ai risultati, trascurando i principi.

2. Sono in discussione modifiche costituzionali soprattutto per il premierato e l’autonomia differenziata. Sinora le proposte non sono state articolate a sufficienza. Il solo punto, sul quale sembra ci sia consenso, è che ci vorrà tempo e non saranno realizzate in questa legislatura.

Prima di modificare la Costituzione sarebbe il caso di mettere in chiaro quale è il rapporto tra cittadino e norma, quello che talvolta viene definito come “senso dello Stato”. Spesso si obietta che la domanda, astratta e quasi filosofica, potrebbe disorientare quando si affrontano questioni di rilevo politico, come quelle di ordine costituzionale. Sembra, invece, che anche quando sono coinvolte le norme apicali dell’ordinamento, sia utile domandarsi in quale misura i destinatari siano orientati ad attenersi alle norme formate con l’obiettivo di rendere il sistema più rapido ed efficiente.

Se è prevedibile che una norma sia poco osservata, potrebbe essere il caso di sostituirla con una, tecnicamente meno qualificata, ma che sarà più osservata dai destinatari. La maggioranza che non sarà d’accordo, dovrebbe ricordare che a suo tempo è stato affermato, da chi conosceva la materia, che una norma migliore, se non applicata oltre una certa misura, può risultare meno efficace di una peggiore, ma che sia più osservata.

3. Se ci si guarda intorno, qualche preoccupazione è giustificata.

Al contrario di quanto si potrebbe pensare, sembra utile cominciare dalle norme che realizzano interessi di rilevo minore. Sono quelle che si incontrano nella vita di tutti i giorni e che, proprio per questo, incidono maggiormente sul “senso dello Stato”. Se si affievolisce il loro livello, diventando quasi un’abitudine non tenerne conto, ne risentiranno anche le norme di rango maggiore, non escluso quello costituzionale.

È diventato difficile vedere a piedi uno di quelli che un tempo si chiamavano vigili urbani; quasi tutti circolano in auto, più facile a vedersi e, comunque, destinata ad allontanarsi rapidamente. Il rischio di incappare in qualche sanzione si è, pertanto, ridotto. Come si è detto, basta guardarsi intorno. Nelle curve c’è sempre qualche auto in sosta, spesso da entrambi i lati, cosicché, quando si è a un incrocio, per verificare se qualcuno viene da destra, si deve arrivare a mezza strada.

Sembra che finalmente si provvederà alla disciplina dei monopattini. Non si è ritenuto che rientrino tra le macchine di qualsiasi specie che circolano nelle strade guidate dall’uomo, come sono definiti i veicoli dall’art. 46 cod. strada. Anche per le biciclette sono stati trovati motivi di esenzione. Ciclisti in transito sui marciapiedi si sono giustificati rilevando che stavano andando in senso vietato. In pratica, due violazione di legge produrrebbero una legittimità.

Si percorre un senso vietato se non c’è nessuno che possa rilevarlo. Non si rispettano i limiti di velocità quando le condizioni del traffico lo consentono. Non occorre continuare. Per rendersi conto di quello che sono diventate le strade, basta sommare le infrazioni che possono essere rilevate durante una passeggiata di mezz’ora. Quando è stato fatto rilevare ad un vigile, che si aveva avuto la ventura di incontrare, che il divieto di sosta lungo una strada “esclusi i residenti” equivaleva ad un parcheggio riservato, qualche giorno dopo si è intervenuti eliminando “esclusi i residenti”, che hanno continuato a restare esclusi dalle sanzioni.

Nessuno ha manifestato qualche perplessità sul fatto che siano in commercio libero auto che possono raggiungere velocità superiori ai 250 km/h, quando i limiti sulle strade pubbliche sono di molto inferiori. In pratica, nell’interesse di chi le fabbrica, si consente di mettere sul mercato gli strumenti utili per violare le norme.

4. Si dirà che si è insistito troppo sulla disciplina della circolazione che non è oggi il problema di fondo. Il perché è stato già detto: se tante sono le violazioni per interessi di minore rilievo, non ci si può aspettare che le norme siano osservate quando in gioco sono interessi di ordine superiore.

Non era difficile prevedere quello che sarebbe successo con i superbonus edilizi. Che i primi interventi sarebbero stati sugli immobili di pregio, non poteva essere una sorpresa: le maggiori risorse dei singoli proprietari o dei condomini avrebbero abbreviato i tempi. Non solo prevedibili, ma certe, sarebbero state le truffe, dati i precedenti. Tenuto conto dei costi per lo Stato, si sarebbero dovuti predisporre controlli, non solo formali, che avessero garantito la effettiva esecuzione delle opere prima di ammettere al beneficio.

Si è messa in dubbio la legittimità della norma, che ha rimodulato la detraibilità, per il suo effetto retroattivo. Sarebbe stata quanto meno opportuna una motivazione fondata sul confronto degli interessi coinvolti. La normativa era stata varata sulla base di previsioni, non su fatti accertati, previsioni che sono risultate di molto inferiori alla realtà, tali da incidere sulla stabilità del bilancio. Non si è intervenuti, dunque, sulla stessa situazione presa in considerazione dalla norma originaria, ma su sviluppi di fatto diversi che, se noti, avrebbero comportato sin dall’origine una disciplina diversa. Non è stato, dunque, un ripensamento sulla disciplina, ma una presa d’atto che la situazione reale era ben diversa da quella prevista inizialmente. Quando si provvede per una situazione in via di sviluppo, che poi viene ad emergere in dimensioni diverse da quelle previste, se si vuole ancora parlare di retroattività, andrebbe intesa in senso diverso da quello tradizionale.

5. Ormai è diffuso l’interesse a prospettare certe questioni in termini che facciano presa sull’opinione pubblica non informata. Le concessioni balneari ne sono un esempio. La questione viene posta in termini di diritto comunitario, fidando forse sulla diffidenza di una parte dell’opinione pubblica verso l’Unione Europea. Si elude una prima domanda: se il regime di quelle concessioni sia conforme al diritto nazionale. Le spiagge sono beni demaniali e, secondo l’art.823 c c., non possono formare oggetto di diritti di terzi se non nei modi e nei limiti fissati dalle leggi che li riguardano. È compatibile con questa natura che la loro utilizzazione sia consentita per tempi molto lunghi agli stessi soggetti, escludendo qualsiasi altro concorrente? Finora è stato così, ma non è detto che solo per questo sia conforme alla Costituzione.

A proposito della Costituzione sarebbe il caso di soffermarsi su alcune situazioni, quanto meno anomale. Su alcune nemmeno si discute perché la loro durata ne dimostrerebbe la legittimità; non viene preso in considerazione che la loro durata potrebbe essere motivata dal fatto che, per la natura incidentale della questione di costituzionalità, il singolo non si trova in condizione di proporre un giudizio a tutela di una sua posizione giuridica. Su quelle che insorgono quando vengono proposte modifiche rilevanti, quasi mai si parte dalle discussioni in Assemblea Costituente, quando fu elaborata la norma da modificare.

Certi fenomeni, che si stanno verificando in altri settori, apparentemente di poco significato, non dovrebbero essere trascurati. Alcuni temini vedono modificato il loro significato che hanno avuto nell’uso tradizionale. Oggi gli eventi di natura più diversa “raccontano”; tutto avviene “in qualche modo”; “assolutamente” qualifica ogni affermazione o negazione; alle “virgolette” è stato tolto il livello della scrittura e sono introdotte nel discorso parlato, dimostrando così che si è persa la nozione del senso traslato. Non potrebbero essere il segno di una tendenza verso una ulteriore omogeneizzazione acritica del pensiero?

L’Europa disorientata – Erni Levy, il fascismo e la guerra

di Claudio Stefano Tani

André Schwarz-Bart (L’ultimo dei giusti, 1959, Editions du Seuil, Parigi, Ed. It. Feltrinelli 1960) ci ha raccontato che il genocidio di un popolo comincia molto prima del suo atto finale. La storia del bambino Erni Levy “morto sei milioni di volte” ad Auschwitz, a Mautausen, a Bergen Belsen e nel resto d’Europa, comincia nel 1185 quando al grido “di Dio lo vuole” la folla si sparge sul sagrato e le anime ebree rendono conto dei loro delitti a quel Dio nel cui nome, impugnando il crocifisso, il vescovo di York “prometteva salva la vita agli ebrei che avessero riconosciuto la Passione di nostro dolcissimo Signore Gesù Cristo”.

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Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri

di Pietro Faraguna

«La Corte costituzionale è composta di quindici giudici»: così afferma l’art. 135 della Costituzione. Oggi però sono quattordici: dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra, così come del mandato dei vice-Presidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati in realtà 12, subito dopo la contestuale scadenza del terzetto, ma gli ultimi due, di nomina presidenziale, sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune, è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.

Facciamo un passo indietro: i 15 giudici che compongono la Corte costituzionale italiana per un terzo vengono nominati dal Capo dello Stato, per un terzo vengono eletti in seno alle supreme magistrature e per un terzo sono eletti dal Parlamento riunito in seduta comune. Per l’elezione di questi ultimi la Costituzione ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori universitari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati nelle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e di ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (con buona pace del primo Alf Ross, cap. XIV)!

Recentemente, tuttavia, il mutamento della realtà politica ha determinato una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Tale difficoltà è stata più agilmente superata quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante, ma più d’uno, così da poter raggiungere un accordo contestuale tra diversi gruppi parlamentari, e raggiungere così l’elevatissimo quorum richiesto dalla Costituzione.

Se, dunque, la dinamica è perfettamente comprensibile sul piano descrittivo, rimane una grave inadempienza costituzionale. Attendere la formazione di un “pacchetto” di giudici “parlamentari” da eleggere conduce a una progressiva concentrazione dell’elezione parlamentare: non riuscendosi a raggiungere l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e il loro pacchetto si “unirà” all’elezione di un singolo giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà così inevitabilmente sempre più grande: assisteremo presto agli effetti di questo processo, con il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra che sembra destinato ad essere riempito solo quando scadrà il “pacchetto” dei prossimi tre giudici parlamentari in scadenza contestuale.

Questa dinamica, tuttavia, genera alcuni inconvenienti piccoli e un rischio molto grande: il piccolo inconveniente è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavori a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).

Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il suo funzionamento è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale, in presenza di condizioni sfortunate, potrebbe avere un effetto valanga (o – per dirla all’inglese, secondo un’immagine che rende meglio – a palla di neve), determinando la formazione di un pacchetto di 4 o persino 5 giudici.

Il pacchetto di 4 giudici sarà la probabile realtà del prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i vice-Presidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare). Se qualcosa dovesse andare storto: per più tempo.

La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la sua stessa operatività, in quanto rimette a qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice il potere nucleare di impedire il funzionamento dell’organo, con la sola forza della sua assenza.

E se, domani, l’adagiarsi su questa cattiva prassi determinasse la confluenza di due pacchetti di 2 e 3 giudici parlamentari, con la scadenza del primo pacchetto e l’incapacità di sostituirlo fino alla scadenza del secondo? In tal caso avremmo almeno qualche settimana di paralisi certa di un organo costituzionale.

Come risolvere questa situazione? Difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: qualche ipotesi, tattavia, guardando anche al dibattito che si è recentemente acceso in Germania, è vagliata qui da Caterina. Allontanandosi dalle soluzioni interne al circuito politico, potrebbe guardarsi a un recente episodio che ha coinvolto la Corte federale del Canada: con una pronuncia del 13 febbraio 2024, la Corte federale ha riconosciuto una convenzione costituzionale secondo la quale i posti vacanti in ambito giudiziario devono essere occupati entro un termine ragionevole, e ha imposto al governo l’obbligo di rispettare tale convenzione (Yavar Hameed Applicant and Prime Minister and Minister Of Justice).

Il Canada è un Paese senz’altro molto diverso dall’Italia, e la Corte federale canadese è senz’altro molto diversa dalla Corte costituzionale italiana, a cominciare dai canali di accesso. Nella sua pronuncia la Corte federale non si occupava di se stessa, ma delle nomine di ben 79 giudici vacanti in varie corti superiori del Paese (in quel modello scelti dal Presidente, secondo dinamiche completamente diverse rispetto alla nostra tradizione giuridica). 

Ferme tutte queste diversità, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare al rinvio delle decisioni a data fissa, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è più che improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare un conflitto di attribuzione con cui la Corte ponga a se stessa il tema della violazione delle attribuzioni costituzionali ad essa attribuite in virtù dell’inerzia parlamentare nel compiere un atto che è costituzionalmente dovuto: certo, una sentenza della Corte non avrebbe strumenti per costringere il Parlamento a eleggere il giudice mancante (anche se, continuando in punto di mera speculazione teorica, potrebbero poi immaginarsi ulteriori strade, come l’incostituzionalità del divieto di prorogatio, introdotto da legge cost. 2 del 1967, per contrasto con i principi supremi dell’ordinamento, da dichiararsi in un giudizio autorimesso che sorge proprio da quel conflitto).

In una parola: fantadiritto (o quasi). Ma il giudice mancante è la realtà. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che è un grave inadempimento costituzionale, che si perpetra dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale.

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