La composizione della Corte è ridotta: ancora

di Ugo Adamo

L’avverbio di tempo nel titolo di questo nostro intervento nasce dalla facile constatazione che la discussione intorno al tema della completezza del plenum della Corte costituzionale non sia stata seriamente posta o comunque non lo sia più da tempo (tranne che su questo giornale con Pietro Faraguna).

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Il giudice vacante alla Corte costituzionale: una questione di numeri

di Pietro Faraguna

«La Corte costituzionale è composta di quindici giudici»: così afferma l’art. 135 della Costituzione. Oggi però sono quattordici: dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra, così come del mandato dei vice-Presidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati in realtà 12, subito dopo la contestuale scadenza del terzetto, ma gli ultimi due, di nomina presidenziale, sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune, è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.

Facciamo un passo indietro: i 15 giudici che compongono la Corte costituzionale italiana per un terzo vengono nominati dal Capo dello Stato, per un terzo vengono eletti in seno alle supreme magistrature e per un terzo sono eletti dal Parlamento riunito in seduta comune. Per l’elezione di questi ultimi la Costituzione ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori universitari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati nelle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e di ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (con buona pace del primo Alf Ross, cap. XIV)!

Recentemente, tuttavia, il mutamento della realtà politica ha determinato una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Tale difficoltà è stata più agilmente superata quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante, ma più d’uno, così da poter raggiungere un accordo contestuale tra diversi gruppi parlamentari, e raggiungere così l’elevatissimo quorum richiesto dalla Costituzione.

Se, dunque, la dinamica è perfettamente comprensibile sul piano descrittivo, rimane una grave inadempienza costituzionale. Attendere la formazione di un “pacchetto” di giudici “parlamentari” da eleggere conduce a una progressiva concentrazione dell’elezione parlamentare: non riuscendosi a raggiungere l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e il loro pacchetto si “unirà” all’elezione di un singolo giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà così inevitabilmente sempre più grande: assisteremo presto agli effetti di questo processo, con il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra che sembra destinato ad essere riempito solo quando scadrà il “pacchetto” dei prossimi tre giudici parlamentari in scadenza contestuale.

Questa dinamica, tuttavia, genera alcuni inconvenienti piccoli e un rischio molto grande: il piccolo inconveniente è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavori a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).

Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il suo funzionamento è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale, in presenza di condizioni sfortunate, potrebbe avere un effetto valanga (o – per dirla all’inglese, secondo un’immagine che rende meglio – a palla di neve), determinando la formazione di un pacchetto di 4 o persino 5 giudici.

Il pacchetto di 4 giudici sarà la probabile realtà del prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i vice-Presidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare). Se qualcosa dovesse andare storto: per più tempo.

La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la sua stessa operatività, in quanto rimette a qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice il potere nucleare di impedire il funzionamento dell’organo, con la sola forza della sua assenza.

E se, domani, l’adagiarsi su questa cattiva prassi determinasse la confluenza di due pacchetti di 2 e 3 giudici parlamentari, con la scadenza del primo pacchetto e l’incapacità di sostituirlo fino alla scadenza del secondo? In tal caso avremmo almeno qualche settimana di paralisi certa di un organo costituzionale.

Come risolvere questa situazione? Difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: qualche ipotesi, tattavia, guardando anche al dibattito che si è recentemente acceso in Germania, è vagliata qui da Caterina. Allontanandosi dalle soluzioni interne al circuito politico, potrebbe guardarsi a un recente episodio che ha coinvolto la Corte federale del Canada: con una pronuncia del 13 febbraio 2024, la Corte federale ha riconosciuto una convenzione costituzionale secondo la quale i posti vacanti in ambito giudiziario devono essere occupati entro un termine ragionevole, e ha imposto al governo l’obbligo di rispettare tale convenzione (Yavar Hameed Applicant and Prime Minister and Minister Of Justice).

Il Canada è un Paese senz’altro molto diverso dall’Italia, e la Corte federale canadese è senz’altro molto diversa dalla Corte costituzionale italiana, a cominciare dai canali di accesso. Nella sua pronuncia la Corte federale non si occupava di se stessa, ma delle nomine di ben 79 giudici vacanti in varie corti superiori del Paese (in quel modello scelti dal Presidente, secondo dinamiche completamente diverse rispetto alla nostra tradizione giuridica). 

Ferme tutte queste diversità, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare al rinvio delle decisioni a data fissa, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è più che improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare un conflitto di attribuzione con cui la Corte ponga a se stessa il tema della violazione delle attribuzioni costituzionali ad essa attribuite in virtù dell’inerzia parlamentare nel compiere un atto che è costituzionalmente dovuto: certo, una sentenza della Corte non avrebbe strumenti per costringere il Parlamento a eleggere il giudice mancante (anche se, continuando in punto di mera speculazione teorica, potrebbero poi immaginarsi ulteriori strade, come l’incostituzionalità del divieto di prorogatio, introdotto da legge cost. 2 del 1967, per contrasto con i principi supremi dell’ordinamento, da dichiararsi in un giudizio autorimesso che sorge proprio da quel conflitto).

In una parola: fantadiritto (o quasi). Ma il giudice mancante è la realtà. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che è un grave inadempimento costituzionale, che si perpetra dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale.

La materialità dei diritti sul banco del Jobs Act

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