di Ines Bruno
Stretta sugli avi italiani grazie ai quali può essere accertata la cittadinanza italiana e quota per gli “oriundi” nel decreto flussi: questi i punti chiave del c.d. decreto legge “Tajani”, convertito definitivamente in legge in questi giorni (cfr. ANSA, Il decreto cittadinanza diventa legge, stretta sugli avi).
Il tema più controverso investe la condizione personale degli italo-discendenti nati all’estero, i quali saranno automaticamente cittadini iure sanguinis solo per due generazioni. Infatti, sarà riconosciuto come italiano solo chi ha avuto almeno un genitore o un nonno nato in Italia, e alla condizione che quel genitore o nonno abbia, o abbia avuto al momento della morte, esclusivamente la cittadinanza italiana o sia stato residente in Italia almeno da due anni continuativi prima della nascita del figlio.
In pratica, la legge incide sullo statuto dell’oriundo di emigrato italiano, di cui già si è discusso in questa testata (v. Trivi e Cunha Verciano), negando il nesso dalla “emigrazione” dei genitori o nonni prima della sua nascita o per la loro cittadinanza estera di “emigrati”. È stata definita la “grande perdita” dello ius sanguinis (Bonato).
Con questo criterio “selettivo”, la riforma nasconde un aspetto un poco inquietante. Essa, infatti, appare ispirata a una sorta di “eugenetica della cittadinanza”. Vediamo sinteticamente in che senso.
Nel panorama storico del diritto comparato, l’eugenetica è stata utilizzata dal legislatore in tre modalità differenti:
– quella c.d. “scandinava”, ovvero per intervenire sulle nascite al fine di evitare cittadini “malformati” e dunque non “paritariamente attivi” come gli altri, oppure per scongiurare la trasmissione di malattie e disabilità, per esempio con l’obbligo della diagnosi prenatale della sindrome di Down (cfr .L. Dotti, L’utopia eugenetica del welfare State svedese, 1934-1975, Rubettino, 2004);
– quella tedesca della “selezione” della razza “pura” oggetto delle proibizioni di sperimentazione, conseguenti all’orrore nazista (cfr. M. Burleigh, The Racial State: Germany 1933-1945. Cambridge University Press, 1991);
– quella statunitense volta a disciplinare, con legge, la “genuinità” del patrimonio genetico di discendenza dei vincoli di sangue a fini politici, specialmente con riguardo agli ex schiavi, come dimostra la vicenda della “Grandfather Clause”, utilizzata per limitare il diritto di voto degli afrodiscendenti (cfr. G. Power, Eugenics, Jim Crow, and Baltimore’s Best, in Maryland Bar Journal, 2016, 1572).
A tutti gli effetti, la legge “Tajani” appare “eugenetica” in questa terza modalità. Essa pretende di definire, con legge, la “genuinità” (si parla, in proposito, di “genuine link”) della discendenza di sangue dell’oriundo italiano ai fini dell’accesso alla cittadinanza per l’esercizio soprattutto del diritto di voto (anche in vista, come noto, della riforma costituzionale dell’elezione diretta del premier, che del voto degli italiani di discendenza all’estero non ha in debito tenuto conto: cfr. Calvano-Spadacini, nonché Midiri).
Poiché il vincolo di sangue (lo ius sanguinis) non è una “fictio” giuridica, ma un dato di natura che, come chiarito dalla Corte di cassazione più volte, inquadra una condizione personale di fatto, da accertare semplicemente (e non invece discrezionalmente) nella continuità (non altrettanto naturalmente interrotta) della successione temporale di discendenza (per es. Cass. civ. SS.UU. n. 25318/2022), l’impostazione legislativa della riforma sembra porre problemi costituzionali di non poco conto, pretendendo di creare una “fictio” lì dove la “fictio”, per legge di natura, non c’è.
L’approccio è spiccatamente biopolitico. Come tale, esso appare in contrasto con l’art. 3 Cost., sia nel comma 1 (discriminare persone, in base alla “condizione personale” dello scorrere del tempo del proprio vincolo di naturale discendenza di sangue, negando così pari dignità sociale fra gli oriundi), sia nel comma 2 (creare un ostacolo di fatto – la “genuinità della discendenza” – per la “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, che legittimamente può avvenire anche attraverso il “lavoro all’estero”, ai sensi dell’art. 35 Cost., dunque senza alcun tipo di obbligo di “residenza”, in coerenza, tra l’altro, anche con l’art. 16 Cost. (c.d. libertà di “espatrio”).
Esso appare verosimilmente in contrasto pure con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali della UE (discriminare i discendenti di sangue in base alla … “nascita”) e con l’art. 14 CEDU (discriminarli in base alla … “origine nazionale” oltre che alla … “nascita”).
Infine, la disposizione congegnata, applicata nel lungo periodo, condurrà a una vera e propria “estinzione” dell’italiano all’estero, fatte salve le ristrette, e nel tempo sempre meno probabili, condizioni previste per i suoi genitori.
Si tratterebbe, pertanto, di una sorta di “eugenetica dell’estinzione” dell’oriundo. Il tutto, per negare agli italiani all’estero il diritto di voto, visto che comunque agli oriundi rimarrebbe concesso (solo) l’ingresso nel “decreto flussi”, degradandoli, da discendenti di emigrati, a “immigrati stranieri”.
Tutto questo fa sospettare di incostituzionalità la legge anche per violazione dell’art. 22 Cost.: privare gli oriundi della già esistente, per legge di natura e non per “fictio” giuridica, “continuità di sangue”, sostituendola con la “fictio” della “genuinità di sangue”, a fini… politici, quando, fino a ieri, il voto degli italiani all’estero veniva celebrato (persino dagli esponenti dell’attuale maggioranza) come conquista del pieno riconoscimento della dignità politica di tutti gli oriundi proprio in nome dell’assenza di qualsiasi “fictio” rispetto agli italiani.
È un bel pasticcio. Probabilmente sarebbe stato sufficiente porsi la seguente domanda, per non incorrere in questi scenari di irrazionalità e incostituzionalità: si può disciplinare con legge la “genuinità di sangue”? Nel campo dello ius sanguinis dell’oriundo (non dello ius sanguinis in generale), non si sta certo intervenendo sulla dignità della persona umana nel suo statuto giuridico di “straniero” e, dunque, nell’esercizio della riserva di legge di cui all’art. 10, secondo comma, Cost. Si sta parlando di dignità della persona umana con un triplice statuto:
– di “naturale” cittadino italiano per “naturale” vincolo di sangue, che non è “fictio” giuridica,
– discendente da emigrati italiani, riconosciuti, con loro libertà di emigrazione, in pari dignità sociale ai sensi dell’art. 35, quarto comma Cost.,
– lavoratore all’estero, da riconoscere e tutelare sempre ai sensi dell’art. 35 Cost.
Verso questo triplice statuto, che interseca la persona umana come discendente italiano lavoratore all’estero, emigrante (prima) e oriundo (poi), entra in gioco la riserva di legge del quarto comma dell’art. 35 Cost., la quale, come osservato in dottrina (cfr. M. Offeddu, Il 4° comma dell’art. 35, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, 1979), risulta rinforzata su tre fronti:
– come rispetto dell’art. 3 Cost., visto che si parla non semplicemente di persona umana, ma di “già” cittadini lavoratori all’estero (prima emigrati poi oriundi), dunque in una particolare “condizione personale” non discriminabile (come chiarito dalla Corte costituzionale sin dalla sent. n. 15/1960),
– come imposizione di “obblighi” sulla libertà di emigrazione, ossia sulla condizione personale di “uscita” dal territorio, non certo sulla discendenza da emigrazione (ossia sulla condizione personale di “nascita” in un territorio straniero);
– come giustificazione degli obblighi “nell’interesse generale”, non certo per ragioni politiche di ridimensionamento del diritto di voto all’estero.
Perché, allora, il legislatore è intervenuto fuori del perimetro di questa riserva di legge? Dando anche solo un rapido sguardo di lettura al dibattito parlamentare, la risposta sembra essere solo una: per restringere la platea degli elettori italiani all’estero.
Alla fine, se la “ratio” della legge, formalmente dichiarata, consiste nel c.d. “ammodernamento” della disciplina della cittadinanza, la reale “intentio” (il c.d. “original intent”) del legislatore, che l’ha redatta, colpisce di fatto un solo destinatario: l’oriundo italiano. E quando “ratio”, dichiarata, e “intentio”, documentabile, non si corrispondono, si entra nel campo minato delle leggi provvedimento; in questo caso, una legge provvedimento “anti-oriundi” (come già prefigurato a inizio dibatti parlamentari, da D. Peron, Cittadinanza: il “nuovo nemico in città” sono gli ‘oriundi’, in Insieme. A revista italiana daqui, 2024).
Spetterà alla Corte costituzionale dichiarare quanto ci sia di costituzionalmente legittimo (e conforme ai divieti di discriminazione per “nascita” e “origine nazionale”) in questo provvedimento “anti-oriundi”.