I giudici della Corte non son più “signori”

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di Eleonora Santoro

 A ridosso delle festività natalizie è passata in sordina una modificazione – all’apparenza meramente formale, ma dall’alto valore simbolico – nella dicitura dell’intestazione delle pronunce della Corte costituzionale.

Sin dal 1956, infatti, nell’intestazione, dopo la previsione «in nome del popolo italiano», per indicare la composizione dell’autorità giudicante, ossia della Corte costituzionale, veniva scritta la frase «composta dai signori Giudici» (corsivo aggiunto), seguita dall’elenco dei giudici costituzionali componenti il collegio. Se l’appellativo non creava alcun problema in passato, con collegi composti per la loro totalità da giudici uomini, non poteva dirsi lo stesso a partire dal 1996, anno nel quale entrava a far parte della Corte costituzionale italiana la prima donna, l’avvocata Fernanda Contri, nominata il 4 novembre 1996 dall’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Ovviamente, negli anni Novanta il problema della declinazione al maschile del suddetto appellativo non destava alcuna preoccupazione, a maggior ragione se si considera che la presenza di una giudice costituzionale era una novità assoluta. Del resto, anche ora, con tutta evidenza non possiamo di certo affermare che la parità di genere sia rispettata nell’ambito del collegio, dato che le donne continuano ad essere una minoranza all’interno della Consulta. Per contro, non possiamo neppure negare però che importanti passi in avanti siano stati fatti grazie alle nomine presidenziali le quali, sino al 2014, sono state le uniche ad investire le donne.

Ad oggi, infatti, sono otto le donne che hanno ricoperto o che ancora ricoprono la carica di giudice della Corte costituzionale (su un totale di 60 giudici costituzionali dal 1956 ad oggi), di cui sei per nomina presidenziale (Fernanda Contri, Maria Rita Saulle, Marta Cartabia, Daria De Pretis, Emanuela Navarretta, Antonella Sciarrone Alibrandi), una per elezione da parte del Parlamento in seduta comune (Silvana Sciarra) ed una soltanto eletta dalla Corte di Cassazione (Maria Rosaria San Giorgio). Queste ultime elette rispettivamente nel 2014 e nel 2020.

Ciò premesso, nonostante siano passati quasi trent’anni dall’ingresso della prima donna, le intestazioni delle decisioni del Giudice delle leggi hanno sempre continuato a recitare «composta dai signori Giudici». Orbene, proprio al termine dell’anno appena trascorso, con la sentenza n. 223 del 2023, depositata il 22 dicembre 2023, la parola “signori” viene caducata – nell’intestazione si legge soltanto «composta da» e l’elenco dei giudici costituzionali – e, senza dubbio, possiamo ritenere si tratti di una scelta consapevole compiuta dalla Corte, dato che l’appellativo non è stato reinserito né nelle sei decisioni depositate al termine del 2023, né nelle prime due del nuovo anno, depositate il 4 gennaio 2024.

Non ci è dato sapere quali siano le ragioni di tale innovazione linguistica nel testo delle decisioni della Consulta, ma preme sottolineare che quella che pare essere una semplice minuzia formale, in realtà, è un importante segnale di ammodernamento nel verso di un uso attento della lingua nella prospettiva di genere, utilizzo attento che non può essere sottovalutato da chi opera nel settore del diritto. L’importanza dell’uso della lingua italiana senza compiere discriminazioni di genere è stato ricordato in modo estremamente ponderato proprio dall’Accademia della Crusca che, il 9 marzo 2023, ha pubblicato la Risposta al quesito sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione, ove ha evidenziato – per il lettore attento – che la ricchezza della lingua italiana consente di risolvere, senza ricorrere ad artifici non necessari (come l’asterisco o «lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola»), la maggior parte delle problematiche legate al linguaggio inclusivo dei generi. Sia sufficiente, per esemplificare il punto, segnalare la possibilità di sostituire nei testi scritti il termine uomo con quello di persona. In questo stesso documento l’Accademia della Crusca rammenta, inoltre, che lo strumento migliore per la rappresentazione di tutti i generi continua ad essere il maschile plurale non marcato «purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare».

A tal riguardo, sembra opportuno far notare l’atteggiamento della Corte costituzionale la quale, nonostante avesse dalla sua parte la correttezza dell’utilizzo di un maschile plurale non marcato per riferirsi ad un collegio composto da entrambi i generi, ha scelto comunque – forse spinta anche dall’anacronismo dell’appellativo “signori”, superfluo rispetto a quello di giudice – di eliminarlo dalle sue decisioni. Una formulazione più asciutta, dunque, che fa seguito alla più risalente rimozione dei titoli dei singoli giudici avvenuta a partire dall’ordinanza n. 66 del 2000.

Un gesto di sensibilità (consapevole, nell’ipotesi qui avanzata) del Giudice costituzionale che mostra come evitare discriminazioni nel linguaggio e nella scrittura sia spesso più semplice – è una mera questione di esercizio – di quanto si crede.

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2 commenti su “I giudici della Corte non son più “signori””

  1. Ringrazio l’autrice per la segnalazione. Ce ne saremmo accorti egualmente, ma va bene che ci abbia sottolineato il cambiamento. Piuttosto traggo dal suo stesso articolo il suggerimento che si potrebbe – in casi del genere – continuare ad impiegare il “plurale non marcato” (scopro ora che si definisce così), visto che non ogni uso del maschile – in una lingua che non conosce il neutro come genere formalmente differenziato – indica oltranza maschilista. Certe battaglie, come dire?, “sovrastrutturali” possono, quando siano troppo forzate, anche contro l’intenzione del parlante e dello scrivente medio, rasentare il ridicolo.

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