Funzioni e risorse: il caos della finanza locale

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di Camilla Buzzacchi

Mentre tornano in auge le aspettative di alcuni territori per l’autonomia differenziata e, in parallelo ed in maniera più generalizzata, ci si interroga sul ruolo che giocheranno le istituzioni locali nell’impiego vincente delle risorse straordinarie provenienti dai finanziamenti europei, la situazione dei Comuni non appare certo rosea. Il loro impegno nel corrispondere ai bisogni delle comunità, che nella perdurante emergenza richiedono interventi intensi e complessi in termini di servizi da erogare, e la scarsezza delle risorse finanziarie con cui attrezzarsi in tale direzione, rimettono al centro sempre e comunque la domanda che più di qualsiasi altra dà contenuto al principio di autonomia. Ovvero: qual è il rapporto tra le funzioni e le risorse? E più nello specifico: quale la correlazione che dovrebbe virtuosamente dare fondamento al valore costituzionale dell’autonomia? e quale invece è quella che effettivamente opera al presente; con un successivo ulteriore interrogativo: con le attuali risorse i Comuni possono realisticamente adempiere ai compiti di cui sono titolari?

La tematica assume sempre più i contorni dell’enigma, e le soluzioni si invocano non per speculazioni meramente astratte e di dottrina, ma perché appare sempre più necessario un quadro di riferimento certo in vista di esigenze di assoluta concretezza: perché laddove la correlazione tra funzioni e risorse manca, i servizi non possono essere erogati e i diritti non possono essere soddisfatti.

Una pronuncia del giudice delle leggi è significativa a riguardo, benché non sembri sufficiente a indicare una rotta definitiva al legislatore. Perché questo, in fondo, è il punto nevralgico: in presenza di una finanza locale ancora prevalentemente dipendente da trasferimenti dello Stato centrale, è da questi che ci si attende decisioni capaci di a) destinare ai territori quantitativi di risorse coerenti ai servizi da garantire, e b) effettuare operazioni di riequilibrio – la c.d. perequazione – tra le diverse capacità fiscali ed i fabbisogni standard.  Sono questi i quesiti sollevati in sede di giudizio di costituzionalità dalla Regione Liguria – sollecitata dall’iniziativa del proprio Consiglio delle autonomie locali, elemento che attesta la vitalità di tale istituzione. Con la decisione n. 220/2021, la Corte costituzionale offre un insieme di considerazioni, che da un lato sono da accogliere favorevolmente, nella misura in cui producono argomenti intorno ad un «nervo» che è ancora più che mai scoperto, e forniscono ragioni per valutare se le misure disposte dal centro sono atte – o meno – a soddisfare le istanze dei livelli territoriali; dall’altro sembrano volere in ogni caso avallare la linea dello Stato, utilizzando una logica che rischia di giustificare ad oltranza l’insufficienza dei trasferimenti.

Senza addentrarsi nei meandri di profili fortemente tecnici del sistema dei rapporti finanziari tra Stato e autonomie, i passaggi salienti della pronuncia sono i seguenti. In uno delle centinaia di commi dell’art. 1 della legge di bilancio per il 2020 si è consolidato per il triennio dal 2020 al 2022 il contributo riconosciuto ai Comuni a ristoro di un gettito tributario che ad essi è stato tolto, quello generato dalla Tariffa per i servizi indivisibili (TASI) nel 2013 e dall’Imposta municipale unica (IMU) sulla prima casa. Il ristoro previsto è stato quantificato nella misura complessiva di 300 milioni, anziché 625 milioni di euro. Un’entrata propria del Comune – la TASI – è stata dunque soppressa e coerentemente sostituita con un trasferimento che, tuttavia, non è comparabile al gettito prima riscosso: se si aggiunge che a tale trasferimento è stato posto il vincolo di destinazione, si comprende la doglianza della Regione ricorrente in merito alla compressione dell’autonomia finanziaria. Infatti di tali compensazioni la norma dello Stato prevede l’impiego per «il finanziamento di piani di sicurezza a valenza pluriennale finalizzati alla manutenzione di strade, scuole ed altre strutture di proprietà comunale». A fronte di tale impianto normativo, ai Comuni non rimane alternativa che non sia la riduzione della spesa necessaria per l’espletamento delle loro funzioni ordinarie.

Altra materia di contestazione è un meccanismo di perequazione che, calibrato sulla differenza tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard, va ad incrementare del 5 % annuo dall’anno 2020 in avanti: fino a raggiungere – secondo le previsioni del legislatore – il valore del 100% nell’anno 2030 e negli anni a seguire. Proprio il parametro della differenza tra le capacità fiscali e i fabbisogni standard viene contestato sotto molteplici profili. Anzitutto per la sua idoneità a perpetuare una preoccupante sperequazione fra i Comuni: esso infatti finisce per determinare solo operazioni di carattere «orizzontale» nell’applicazione del Fondo di solidarietà comunale (FSC), ridimensionando il contributo che invece lo Stato – e dunque in maniera «verticale» – deve assicurare. Ma anche perché impiega modalità di calcolo delle capacità fiscali inique; e fa infine riferimento a fabbisogni standard strutturati in maniera discutibile.

La decisione della Corte respinge tutte le questioni per motivi di inammissibilità e infondatezza, e quindi riconosce ampiamente la legittimità, alla luce dell’art. 119 Cost., delle scelte del legislatore statale. Merita di essere richiamato l’argomento centrale a cui il giudice fa ricorso, allineandosi a pregressa giurisprudenza: come già sostenuto con la sent.  83/2019, si riafferma che le disposizioni che riguardano «l’assetto finanziario degli enti territoriali non possono essere valutate in modo “atomistico”, ma solo nel contesto della manovra complessiva». Per tale ragione, con riferimento al rapporto tra funzioni da finanziare e risorse, la riassegnazione di queste ultime «è priva di qualsiasi automatismo e comporta scelte in ordine alle modalità, all’entità e ai tempi, rimesse al legislatore statale». Ma si aggiunge altresì – e questa considerazione appare almeno contraddittoria – che il ridimensionamento non è tale «da incidere significativamente sul livello dei servizi fondamentali, pur in assenza della definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP)». Come è possibile stabilire con certezza che la riduzione di trasferimenti non viola la garanzia dell’art. 117, co. 2, lett. m Cost. se questa garanzia non è stata mai approntata?

Consola poi che la Corte non si lasci sfuggire l’occasione per stigmatizzare proprio questo ritardo, che può piuttosto qualificarsi come vero e proprio inadempimento da parte dello Stato. Il «perdurante ritardo nel definire i LEP, i quali indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale, nonché “il nucleo invalicabile di garanzie minime” per rendere effettivi tali diritti» è oggetto di censura per più di un motivo: perché i LEP rappresentano un elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali; perché essi garantirebbero «un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR)»; ma anche – e questo è il primo e più autentico fondamento della previsione – perché da essi non si può prescindere per il superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali. Se tale è la «missione» dei LEP, rimane poco comprensibile un giudizio che promuove senza riserve le scelte di allocazione delle risorse ai Comuni in totale assenza di quel parametro che, nel suo ruolo minimale, viene dichiarato pietra fondante di un sistema di finanza locale caratterizzato dallo svolgimento leale e trasparente dei rapporti fra lo Stato e le autonomie territoriali.

Tutti i temi decisivi che ruotano intorno alla finanza dei Comuni sono stati messi sul tavolo: le entrate proprie, i trasferimenti dello Stato, la capacità fiscale, i fabbisogni standard, la perequazione…nonché i LEP. E tutti sono cruciali – se ben definiti – per assicurare il fine a cui sono orientati: garantire l’esercizio delle funzioni. Una singola pronuncia – benché inserita in un filone che ormai da anni porta al centro del dibattito questi meccanismi e le ragioni costituzionali che li ispirano – non può evidentemente riaggiustare un contesto ormai distorto e mal funzionante: non lo avrebbe corretto neanche se fosse approdata all’esito di un accoglimento delle argomentazioni della Regione. Il quadro è infatti ormai così mal regolato e opera in maniera così iniqua ed inefficiente che solo sul legislatore nazionale ricade la responsabilità di ripensarlo e di mettere i Comuni nelle condizioni di svolgere altrettanto responsabilmente i loro compiti istituzionali. L’assoluzione da parte del custode della Costituzione però non aiuta.

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