La composizione della Corte è ridotta: ancora

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di Ugo Adamo

L’avverbio di tempo nel titolo di questo nostro intervento nasce dalla facile constatazione che la discussione intorno al tema della completezza del plenum della Corte costituzionale non sia stata seriamente posta o comunque non lo sia più da tempo (tranne che su questo giornale con Pietro Faraguna).

E infatti, si registrano solo due fumate nere da parte del Parlamento in seduta comune, quella dell’8 e del 29 novembre 2023, non risultando in calendario alcuna prossima convocazione; due scrutini che si sono susseguiti ‒ molto più che probabilmente ‒ per abbassare il quorum (al risultato utile serve solo un’altra votazione) più che per raggiungere il risultato dell’elezione. E allora, il prossimo 12 marzo saranno trascorsi ben tre mesi dal termine ultimo da quando il Parlamento in seduta comune avrebbe dovuto sostituire la giudice Silvana Sciarra, il cui mandato, come era noto già da nove anni, è terminato improrogabilmente il 12 novembre 2023.

Il Parlamento in seduta comune, a partire dal 12 novembre, aveva a disposizione un mese per dar seguito all’obbligo gravante di eleggere un nuovo giudice, ma nulla è accaduto e il termine è stato ampiamente non rispettato; d’altronde, non essendovi alcuna sanzione, il termine è ordinatorio e non già perentorio.

Che il Parlamento in seduta comune proceda in ritardo nell’elezione dei giudici costituzionali (che è ‒ lo si ricorda ‒ di cinque su quindici) è notorio se solo si pensi che ciò avviene sempre e fin dalla prima elezione (correva l’anno 1953). La circostanza che ciò accada da sempre non significa però che il ritardo possa essere considerato al pari di una prassi, tanto che ci pare quantomeno opportuno rilevare quanto accade nell’indifferenza generale delle istituzioni, in primis dello stesso Parlamento in seduta comune e del suo Presidente (che è quello della Camera dei deputati).

Già nominati prontamente (forse troppo) i giudici spettanti al Presidente della Repubblica il 6 novembre ‒ nel rispetto del termine di trenta giorni, anzi addirittura prima della scadenza del loro mandato che sarebbe cessato solo il successivo 12 novembre ‒ e trascorso, lo scorso 12 dicembre, il termine entro il quale procedere all’elezione da parte del Parlamento, la stessa Corte ha eletto suo Presidente il Prof. Augusto Barbera, che ha pronunciato da subito parole piane e chiare: «[s]ono stato eletto da un collegio di 14 giudici anziché di 15 non essendo ancora intervenuta l’elezione del giudice di competenza del Parlamento […], il mio auspicio è che quanto prima si possa completare il collegio».

Alcuni osservatori politici ipotizzano che questo rinvio potrebbe protrarsi fino alla fine del 2024, quando il Parlamento dovrà sostituire altri tre giudici che cesseranno la funzione il 21 dicembre.

Facile dovrebbe essere constatare che la politica non può piegare il testo costituzionale (precettivo) ai propri fini e alle proprie risultanze. Ciò vale a maggior ragione se si considera che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ranghi ridotti non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesce del tutto a farlo. Infatti, il primo valore violato da un collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da celere elezione) è lo stesso che è alla base della previsione del quorum strutturale. La Corte non è messa nelle condizioni di espletare la sua funzione a valle di un giudizio frutto dell’apporto di tutte le competenze ed esperienze tecniche e sensibilità culturali e ideali che trovano un punto di mitezza nella predisposizione della decisione elaborata in camera di consiglio.

La violazione continuativa del principio di completezza può portare a una serie di problemi: sovraccarico di lavoro, rischio di accumulo di arretrato, possibili spaccature interne alla Corte a seguito di una presidenzializzazione delle decisioni dell’organo (una Corte composta da 14 giudici giunge a una decisione risolutiva grazie al voto del Presidente che si esprime per ultimo e con un voto che, in caso di parità, vale doppio).

Se i rischi attuali per un’istituzione che più delle altre è chiamata a garantire l’ordinamento costituzionale nel suo complesso sono sicuramente di non poco spessore, le criticità sarebbero destinate a essere sottoposte a un incalcolabile effetto moltiplicatore se si arrivasse al prossimo dicembre. A quel punto, prolungandosi il ritardo nell’elezione del giudice a oggi mancante, quasi certo sarebbe il rischio di blocco dell’istituzione (il funzionamento della Corte richiede la presenza di almeno undici giudici) in quanto dal 21 dicembre 2024 mancheranno quattro giudici su quindici, tanto che anche solo un serio raffreddore (ancora Faraguna) di un giudice che non potrà recarsi in udienza basterà a bloccare i lavori della Corte, sempre che il Parlamento in seduta comune non elegga prontamente i giudici cessati.

In chiusura una chiosa metodologica (1), un consiglio (2) e un allert (3).

(1) In tema di composizione della Corte, dal dato costituzionale rilevano (almeno) due indicazioni: lo scrutinio segreto, che libera il parlamentare/elettore da logiche partitistiche e quindi da influenze eterodirette, e le elevate maggioranze richieste, che tendono a escludere possibili derive partigiane. Queste ultime, d’altronde, sono esplicitamente rifiutate dalla Costituzione: la trasposizione in Corte dei concreti rapporti di forza parlamentari, infatti, non è prevista a differenza di quanto avviene per altri organi, ai quali non deve essere assicurata indipendenza di giudizio (si pensi alle commissioni permanenti, a quelle d’inchiesta o ai delegati regionali da designarsi per l’elezione del Capo dello Stato). La funzione di quorum così elevati (2/3 dei componenti l’Assemblea nei primi 3 scrutini, per poi scendere comunque ai 3/5) è quella di spoliticizzare al massimo l’elezione.

È di una qualche utilità ricordare che la democrazia costituzionale è limite al potere, è limite alla maggioranza, soprattutto quando si parla di organi di garanzia e su tutti di Corte costituzionale. La spartizione per quote (Zagrebelsky) o per accordi spartitori (Saccomanno) che nel caso concreto potrebbero portare a un “3 a me e 1 a te” o “2 a me, 1 a lui e 1 a lei” paleserebbe, ancora una volta, un uso distorto delle regole costituzionali. Non si può politicizzare, quindi, l’elezione dei giudici e si spera che le parole della Presidente del Consiglio dei ministri Giorgia Meloni durante la conferenza stampa di fine (poi divenuta di inizio) anno siano state dettate dalla retorica populistica (che comunque non è poco) e non già dalla idea (errata) per cui tutti i posti vacanti al 14 dicembre sarebbero nella disponibilità di chi ha vinto le elezioni perché questa è la democrazia.

(2) Dovendo fare i conti con quanto sovente accade ‒ e molto probabilmente continuerà a verificarsi ‒ il ritardo nella nomina parlamentare ‘dovrebbe essere risolto’, nell’immediato, con la convocazione a oltranza del Parlamento in seduta comune con obbligo di votazione continuativa. Come accade, d’altronde, per l’elezione del Presidente della Repubblica con conseguente sospensione dei lavori parlamentari; in tale situazione, il Parlamento in seduta comune sarebbe indotto a scegliere in poco tempo per non “rimanere ostaggio” del suo Presidente. Si è consapevoli che questa proposta potrebbe non essere risolutiva, anche se, probabilmente, potrebbe esserlo più di altre avanzate in dottrina, sempre fra quelle de iure condito.

Per esempio, richiamando ancora una volta l’intervento di Faraguna, un eventuale conflitto tra organi da menomazione non pare in grado di risolvere il problema, in quanto saremmo dinanzi a un caso di omissione relativa di un obbligo costituzionale. Come del resto sottolinea lo stesso autore, la problematica discendente da tale ipotesi sarebbe quella dell’effettività della decisione della Corte nella misura in cui l’oggetto del conflitto, appartenendo agli atti omissivi degli organi costituzionali, rimanda alla questione dell’ineffettività di una decisione che, con riguardo agli effetti, sarebbe da inquadrare come una sorta di monito al Parlamento in seduta comune di dar seguito senza tentennamenti all’obbligo costituzionale richiesto da un comportamento compiuto e risolutivo. Per quanto riguarda invece l’eliminazione del divieto di prorogatio del giudice scaduto si (re)introdurrebbe un istituto che, seppur in grado di garantire la continuità delle funzioni, sicuramente non è finalizzato a stimolare l’elezione da parte parlamentare tanto da produrre un effetto controproducente: ridotto il pericolo dello stallo del funzionamento della Corte costituzionale, con il certo venir meno del rischio di mancato raggiungimento del quorum, potrebbe concedersi un lasso di tempo maggiore alle forze politiche per cercare la quadratura del cerchio, incentivandone finanche l’inerzia.

(3) Il prossimo 14 dicembre le Camere saranno occupate a lavorare su un testo che poi (molto più che probabilmente) sarà modificato da un maxiemendamento su cui sarà posta la questione di fiducia. È possibile prevedere che la prima udienza pubblica del 2025 si terrà il 7 gennaio. Il calendario tra sessione di bilancio e periodo natalizio è già abbastanza pieno. Il rischio è davvero troppo elevato per non iniziare a discuterne. Si pone la problematica con largo anticipo,  non certo per la soddisfazione di poter dire (con Faraguna) “noi lo avevamo detto” sarebbe davvero poca cosa rispetto alla grave situazione paventata.

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