Voto degli studenti fuori sede. Poche luci e molte ombre nell’emendamento approvato in Commissione

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di Federico Barbarossa

Il 22 febbraio 2024 la Commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato, all’unanimità, una «disciplina sperimentale» per l’accesso al diritto di voto da parte degli studenti fuori sede in occasione delle prossime elezioni dei membri del Parlamento spettanti all’Italia per l’anno 2024.

Si tratta di un articolo aggiuntivo, numerato 1.0.1 (testo 2), che va ad inserirsi nel decreto-legge n. 7 del 2024, relativo allo svolgimento delle consultazioni elettorali dell’anno 2024 (A.S. 997, XIX leg.). L’emendamento era stato sottoscritto inizialmente da alcuni senatori del gruppo Fratelli d’Italia (Lisei, Della Porta, De Priamo e Spinelli), ma poi vi hanno aggiunto la loro firma tutti i componenti della Commissione, inclusi i supplenti.

Il tema generale è assai rilevante. Anche a tacere di questioni macroscopiche che investono la società contemporanea circa la rimeditazione dell’accesso alla partecipazione politica e alla stessa cittadinanza, già l’esercizio del diritto di voto in luogo diverso dalla residenza costituisce un tassello di innovazione piccolo, ma significativo. E lo diventa ancor di più quando riguarda le generazioni più giovani, in una fase di preoccupante calo dell’affluenza in ogni successiva consultazione elettorale e in un Paese come l’Italia, caratterizzato da una mai cessata migrazione interna, specie in direzione sud/nord.

In linea generale, dunque, intervenire per individuare soluzioni concrete al fine di agevolare l’esercizio del diritto di voto da parte di chi vive in un comune diverso da quello di origine risponde a istanze da tempo rappresentate, specie dagli studenti (ma non solo). Tuttavia, i contenuti specifici dell’intervento suscitano molte perplessità, deludendo le aspettative di coloro che desideravano vedere corrisposta la richiesta del “voto dove vivo”.

Sembra possibile riassumere i profili critici in 4 direttrici principali, analizzandoli in ordine di problematicità crescente.

Anzitutto, si tratta di una «disciplina sperimentale», così come si autoqualifica il testo, sin dalla rubrica dell’articolo aggiunto. Dunque, è una tipica sunset legislation, destinata a esaurire i propri effetti con le elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia per l’anno 2024. Perciò non è una risposta compiuta alle esigenze di cui sopra, ma un tentativo in questa direzione. E anche qualora dovesse “funzionare” (e i dubbi, si dirà, non mancano), dovrà essere rinnovato con un ulteriore e futuro intervento del legislatore.

In secondo luogo, è assai discutibile la perimetrazione degli ambiti soggettivi e oggettivi, che limitano l’esperimento in maniera significativa. Dal punto di vista soggettivo, la disciplina riguarda solo gli studenti che, per motivi di studio comprovati da specifica documentazione, risultano domiciliati in un comune diverso da quello di residenza per un periodo di almeno 3 mesi all’interno dei quali cade la data della consultazione elettorale. Dovrebbe trattarsi di circa 600.000 giovani. Non sono quindi coinvolti i lavoratori che si trovino a vivere in altro comune (che invece sono circa 4 milioni) o i cittadini, in generale, che per motivi diversi dallo studio (nel caso più frequente: per motivi di cura sono circa 500.000) si siano allontanati temporaneamente dalla loro residenza. Anche alla luce di queste cifre, sembrerebbe quindi necessario ascrivere il diritto di cui si tratta a una sorta di manifestazione del diritto allo studio, piuttosto che allo status di cittadino/elettore.

Inoltre, da un punto di vista oggettivo, è limitato alle sole elezioni europee e non è applicabile anche alle altre consultazioni elettorali che pure si svolgeranno nelle stesse date e che, per altro, coinvolgeranno un numero non indifferente di amministrazioni: 29 comuni capoluogo, tra i quali sedi universitarie come Bari, Bergamo, Cagliari, Campobasso, Cesena, Ferrara, Firenze, Forlì, Lecce, Modena, Pavia, Perugia, Pescara, Potenza, Reggio Emilia, Rovigo, Sassari, Urbino.

In terzo luogo, da un punto di vista procedurale, risulta quasi improba l’impresa attuativa dei contenuti dell’emendamento approvato, che delinea una concatenazione di procedure complesse e forse eccessivamente barocche, in una tempistica estremamente stringente. Si prevede che chi intenda avvalersi della possibilità di votare in un comune diverso dalla residenza presenti una domanda 35 giorni prima della data di svolgimento delle consultazioni (considerando che le europee si tengono l’8 e 9 giugno 2024, detto termine cadrà quindi il 4 maggio). Questa richiesta innesca un dialogo tra comune di residenza e comune in cui verrà esercitato il voto, al fine di: i) verificare il possesso del diritto di elettorato attivo; ii) annotare sulla lista sezionale del comune di residenza che il richiedente voterà altrove; iii) rilasciare, da parte del comune in cui sarà esercitato il voto, un’attestazione di ammissione in tal senso.

Tuttavia, stiamo parlando di un emendamento approvato in relazione a un disegno di legge che è ancora in itinere. Si tratta di un disegno di legge di conversione ancora nelle prime fasi della sua discussione: il termine per la conversione scadrà il 29 marzo 2024. Anche ipotizzando, ottimisticamente, un tempo inferiore per il completamento dell’iter di conversione (ma manca ancora l’Assemblea del Senato e poi, almeno, i passaggi in Commissione e in Assemblea alla Camera) è difficile immaginare di vedere in Gazzetta Ufficiale la legge di conversione prima di metà marzo, data a partire dalla quale i contenuti dell’emendamento potranno dispiegare i loro effetti. Solo a partire da questa data sarà possibile innescare il procedimento, che potrà verosimilmente riguardare tutti i comuni d’Italia e, ragionevolmente, anche tanti piccoli comuni con limitate capacità amministrative. Per altro, il testo non prevede espressamente un provvedimento attuativo (es. un decreto, magari del Ministro dell’interno) che sarebbe stato utilissimo al fine di delineare la procedura in parola. Un ruolo in questo senso potrebbe essere recuperato in altra sede, ad esempio nei vari documenti relativi alle istruzioni diramate dallo stesso Ministero per lo svolgimento delle operazioni elettorali. Ma magari l’emendamento poteva essere l’occasione per chiarire questi aspetti, che – si immagina – richiameranno grande attenzione e dibattito nel Paese (e nelle università).

In quarto luogo, e appunto, con una dose di problematicità ancora maggiore, vi è il contenuto specifico della soluzione adottata. Si prevede che i richiedenti possano esercitare il diritto di voto sì in ragione del loro domicilio, ma con effetti che si producono nella circoscrizione in cui si trova il comune di residenza (comma 3, secondo periodo). In questa chiave, vi è una disciplina differenziata tra soggetti domiciliati in un comune diverso dalla residenza, ma ricadente comunque all’interno della medesima circoscrizione, e soggetti domiciliati in un comune facente parte di diversa circoscrizione. Nel primo caso, il voto è esercitato nel comune del domicilio, nel secondo – paradossalmente – in altro comune, ossia nel capoluogo della regione in cui si trova il comune di domicilio, dove sono istituite sezioni elettorali speciali (comma 8).

È evidentemente necessaria una qualche esemplificazione, al fine di districarsi in una disciplina a tal punto attenta alle esigenze di sostenibilità amministrativa e di conservazione dei “bacini” elettorali da risultare eccessivamente penalizzante proprio per il contenuto semplificatorio che voleva raggiungere. E dunque: Anna e Marco studiano insieme a Ferrara, ma Anna è di Modena (che ricade nella stessa circoscrizione, Italia Nord-Occidentale), mentre Marco è di Perugia (circoscrizione Italia centrale); seguono le medesime procedure per avvalersi della nuova possibilità introdotta dal legislatore, ma Anna vota a Ferrara, mentre Marco a Bologna. Non possono nemmeno confrontarsi tra loro sui candidati verso i quali dirigere i voti di preferenza, perché le liste rispetto alle quali potranno esprimersi sono diverse. Così anche per il loro ulteriore collega di studi, Corrado, di Campobasso (circoscrizione Italia meridionale), che potrà fare il viaggio per Bologna insieme ad Anna (e avvalersi con lei delle agevolazioni di viaggio previste dal comma 11), ma avrà altri pensieri circa l’offerta elettorale, ulteriormente diversa, che si troverà di fronte. Tutti e tre, pur potendo restare in Emilia e votare per le europee, assisteranno al vivace dibattito tra i loro compagni di corso sui candidati sindaci e sui candidati al Consiglio comunale della città in cui vivono e studiano, ma non potranno concorrere ad eleggerli. E ancora, tutti e tre, pur esercitando il voto per le elezioni europee sì a distanza, ma comunque in ragione del comune di residenza, non potranno altrettanto partecipare al rinnovo del sindaco e consiglio comunale in quest’ultimo.

Insomma, non proprio un modo per rendere attivi e partecipi i più giovani che pure hanno deciso di continuare a studiare (e sono sempre meno) e lo fanno con non indifferenti sforzi personali, e si attivano per esercitare a pieno il loro dovere civico di elettori.

In conclusione: quanto ipotizzato dal legislatore con l’emendamento approvato lascia sperare che sia solo un inizio, magari dettato da una iniziativa tardiva e dai tempi stretti derivanti dal complesso iter necessario per conseguire il risultato entro la data di svolgimento della consultazione. Ma una volta che si era trovata l’occasione e la convergenza politica per affrontare un tema del genere, questo risultato assume più il sapore di un’occasione persa che non di una conquista.

Resterebbe sempre una possibilità per l’Assemblea del Senato (o, ma con meno probabilità, per la Camera dei deputati) di intervenire sul testo, magari per migliorarlo…

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