Il discorso del Presidente Mattarella: la solidarietà non è “buonismo”

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di Alessandro Morelli

Il messaggio di fine anno del presidente Mattarella ha riscosso uno straordinario successo. Più di dieci milioni di telespettatori lo hanno ascoltato in diretta tv e numerosissime sono state le visualizzazioni sui social. Grande era la curiosità di sentire cosa avrebbe detto Mattarella sul modo in cui, nei giorni immediatamente precedenti, era stata approvata la legge di bilancio e sui contenuti di quest’ultima, ma anche sulle altre questioni centrali toccate, negli ultimi mesi, dagli interventi del Governo, prima fra tutte quella della sicurezza. E Mattarella è andato subito al sodo, con poche, ma incisive parole, affrontando il tema della sopravvivenza della comunità nazionale: “sentirsi ‘comunità’ – ha detto il Capo dello Stato – significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa ‘pensarsi’ dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese. Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è giusto, per le proprie idee rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”. Parole che – ha subito ammesso Mattarella – sicuramente a molti appariranno espressione di “retorica dei buoni sentimenti”, lontana dalla realtà, nella quale invece, secondo il diverso punto di vista (che si vorrebbe oggi prevalente), il problema più urgente da risolvere sarebbe quello della sicurezza. Il richiamo ai buoni sentimenti, in politica, è ormai accusato sempre più spesso di essere declinazione di un “buonismo” non più sostenibile, a fronte dell’emergenza (reale o presunta) del fenomeno migratorio, dell’esigenza di difendere i confini nazionali e di garantire la sicurezza dei cittadini.

Il Presidente della Repubblica, interpretando al meglio il ruolo di “rappresentante dell’unità nazionale” che l’articolo 87 della Costituzione gli attribuisce, ci ha invitato a riflettere sull’importanza dei “buoni sentimenti” e sul significato del termine “sicurezza”.

Partiamo dai primi.

Il Presidente ci esorta a non “aver timore di manifestare buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società. Sono i valori coltivati da chi svolge seriamente, giorno per giorno, il proprio dovere; quelli di chi si impegna volontariamente per aiutare gli altri in difficoltà. Il nostro è un Paese ricco di solidarietà. Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni”. La solidarietà non è “buonismo”, ma è il principio sul quale i Costituenti intesero fondare l’unità politica presupposta dall’ordinamento repubblicano.

Le leggi, compresa quella fondamentale che chiamiamo “costituzione”, da sole non bastano a tenerci uniti. Ci deve essere dell’altro. Cos’è questo qualcosa che ci fa stare insieme? Si potrebbe rispondere evocando l’esistenza di un’identità comune, ma la questione è controversa. Si pensi alla recente polemica tra Tomaso Montanari (L’identità inventata degli italiani, in Il Fatto Quotidiano, 10 settembre 2018) ed Ernesto Galli della Loggia [L’identità esiste (ma a sinistra c’è chi dice no), in Corriere della sera, 15 settembre 2018]. Per il primo, la categoria dell’identità sarebbe pericolosa, servendo soltanto ad alimentare il “veleno della retorica identitaria”: “se ‘identità’ significa – etimologicamente – uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta e perfetta, bisogna dire con chiarezza: no, questa ‘identità italiana’ non esiste”, egli conclude. Di diverso avviso il secondo, per il quale tale identità non si risolverebbe in qualcosa di assoluto ma nell’unicità di una cultura: “non si tratta di affermare una qualunque purezza […] bensì di mettere a fuoco una singolare complessità. Non si tratta di biologia, insomma, si tratta di storia. L’identità è un fatto storico, il frutto di una storia. Per questo essa è unica e irripetibile: perché tale è ogni storia”.

La contesa semplifica i termini del dibattito antropologico, nell’ambito del quale a chi ha proposto perfino di eliminare il termine “identità” dal lessico delle scienze umane, in considerazione del carattere in gran parte fittizio e artificioso di tutti i costrutti identitari (F. Remotti), si è obiettato che la cancellazione della parola non farebbe venir meno i tanti “identitarismi” oggi esistenti e che l’uso del termine identità non comporterebbe necessariamente la condivisione di una “filosofia identitaria” o di un “fondamentalismo culturalista”. L’identità indicherebbe semplicemente “una volontà di distinguersi, di essere diversi, di essere conosciuti per quel che si è o che si ritiene di essere” (U.E.M. Fabietti). In buona sostanza, essa esprimerebbe l’autopercezione di un gruppo sociale, storicamente condizionata.

Esiste allora un’identità nazionale? Sembrerebbe di sì, anche perché altrimenti non avrebbe alcun senso la previsione contenuta nell’articolo 4.2 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui “l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali”. L’identità italiana è costituita dalle istituzioni politiche italiane, oltre che ovviamente dalle tradizioni e dai tratti culturali diffusi su tutto il territorio nazionale. Essa, tuttavia, non può essere intesa in senso assoluto, come una condizione di “purezza”, monolitica e immutabile, bensì come una realtà complessa e in continua evoluzione. Come ci ricorda il Presidente nel suo discorso, quel che tiene unita tale realtà, secondo il disegno repubblicano, è proprio la solidarietà, nelle diverse declinazioni richiamate dall’articolo 2 della Costituzione: politica, economica e sociale.

L’unità politica dipende dall’autopercezione della comunità, ma il modo in cui si forma e si mantiene tale identità, giorno per giorno, può essere molto diverso. In ordinamenti autoritari, l’identità nazionale è alimentata dalla paura dell’altro, dalla volontà di autoaffermazione, dalla soppressione del dissenso e dalla limitazione delle libertà fondamentali. Nella democrazia costituzionale disegnata dalla Carta repubblicana, l’identità collettiva si deve alimentare, invece, attraverso lo sviluppo della solidarietà, presupponendosi un’ontologia dei rapporti sociali in base alla quale ciascun componente della comunità nazionale è al tempo stesso debitore e creditore di tutti gli altri membri (presenti, passati e futuri) della medesima collettività.

In tale prospettiva può comprendersi l’importanza riconosciuta al volontariato dalla Corte costituzionale in una sentenza nella quale si sottolinea anche il ruolo dello stesso principio di solidarietà, “per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. Si tratta di un principio che, comportando l’originaria connotazione dell’uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (sentenza n. 75 del 1992). Sulla stessa linea, il presidente Mattarella sottolinea che le realtà del Terzo settore e del no profit “rappresentano una rete preziosa di solidarietà. Si tratta di realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli, degli emarginati, di anziani soli, di famiglie in difficoltà, di senzatetto. Anche per questo vanno evitate ‘tasse sulla bontà’” (il riferimento è chiaramente alla norma contenuta nella legge di bilancio 2019 che prevede l’eliminazione dell’agevolazione Ires al 12%, anziché al 24%, per gli enti no profit).

Sulla base di tali premesse va ripensato anche il concetto di sicurezza, che non si esaurisce soltanto nella prevenzione e nella repressione dei reati, ma anche nella predisposizione di strumenti adeguati ad assicurare la convivenza pacifica degli individui e quel “pieno sviluppo della persona umana” di cui parla l’articolo 3, comma 2, della Costituzione. Le politiche per la sicurezza, pertanto, non possono assumere una connotazione esclusivamente repressiva, ma anche preventiva, dovendo mirare a garantire l’effettività dei diritti e l’integrazione sociale di tutti. A tale più ampia declinazione del concetto fa riferimento ancora il Capo dello Stato quando afferma che la sicurezza parte “da un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune” e che “la vera sicurezza si realizza, con efficacia, preservando e garantendo i valori positivi della convivenza”, poiché “sicurezza è anche lavoro, istruzione, più equa distribuzione delle opportunità per i giovani, attenzione per gli anziani, serenità per i pensionati dopo una vita di lavoro: tutto questo si realizza più facilmente superando i conflitti e sostenendosi l’un l’altro”.

Il Presidente ci invita, dunque, a riflettere sulla più grande sfida che dovremo affrontare nell’anno appena iniziato (e, con tutta probabilità, nei successivi): quella di superare l’egoismo sociale dilagante e di riscoprire le tante declinazioni della solidarietà, prime fra tutte quella territoriale, che deve ispirare il processo attuativo del regionalismo differenziato appena avviato, senza aggravare il già difficilmente sostenibile divario tra Nord e Sud, e quella nei confronti dei migranti, i cui diritti non possono essere sacrificati in nome di una malintesa idea d’identità nazionale, incompatibile con i principi di civiltà fatti propri dalla Carta repubblicana.

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