L’atto politico è sempre insindacabile?

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di Salvatore Curreri

L’atto politico è sempre e comunque per sua natura insindacabile? Questo è il nocciolo della questione. Chi risponde affermativamente a tale interrogativo, comprensibilmente guidato dalla preoccupazione di affermare la prevalenza delle ragioni della politica sulla magistratura, si espone però al rischio di dover considerare giustificabile qualunque reato ministeriale, foss’anche – come ipotizzato, estremizzando, dal prof. Bin nel suo precedente intervento – un omicidio compiuto per ragioni politiche.

Di contro, chi risponde negativamente, finisce per sottovalutare la ratio dell’art. 96 Cost. che sottende esattamente che per ragioni di interesse nazionale un ministro possa compiere un reato.

Il punto di equilibrio tra queste due visioni estreme, entrambe a mio modesto parere non condivisibili, sta in quello che, in modo saggio e – possiamo oggi dire lungimirante – ha scritto la Corte costituzionale nella sentenza n. 81/2012.

Pur lasciando volutamente imprecisata la questione della natura politica dell’atto, la Corte ha ammesso che vi sono “spazi riservati alla scelta politica”, come dimostrato “da elementi di diritto positivo”. “Ciò nondimeno, gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo”; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate” (4.2 cons. dir.).

Il punto allora è valutare se, nel caso in specie, il comportamento del ministro dell’interno fosse l’unico possibile per tutelare le ragioni di interesse pubblico oppure se vi fossero nel caso in specie alternative non configuranti ipotesi delittuose.

Nemmeno al personale dei servizi segreti, che possono essere legittimamente autorizzati volta per volta a commettere reati “indispensabili alle finalità istituzionali di tali servizi” sono consentiti “delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone” (art. 17 legge n. 124/2007).

Certo, l’art. 9.3 l. cost. n. 1/1989 definisce non a caso la valutazione della camera di competenza “insindacabile”.

Ma, in uno Stato di diritto, può tale insindacabilità sottrarsi ai parametri di ragionevolezza e proporzionalità, specie in riferimento alla lesione di una libertà, come quella personale, che l’art. 13 Cost. definisce “inviolabile”?

Solo dubbi su una questione che, a mio modesto parere, merita minori certezze.

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2 commenti su “L’atto politico è sempre insindacabile?”

  1. Il nocciolo della questione è formulato in termini troppo giuspositivistici. Tutto è sindacabile. Ma da chi? Chi è il giudice supremo di quale atto? La Costituzione, perfetta, tenta la quadratura del cerchio: qualsiasi atto politico può essere sanzionato penalmente, ma gli atti compiuti dai parlamentari o ministri lo sono solo se una maggioranza della camera di appartenenza concede l’autorizzazione a procedere. Se esagerano a negare l’autorizzazione, sono gli elettori a censurarli alla successiva tornata elettorale. La scappatoia politica all’azione penale crea uno spazio necessario di azione responsabile all’inevitabile ed indispensabile PREROGATIVA governativa nonché parlamentare. Se non fosse così saremmo in un regime di governo (dispotico) dei giudici. Nel discorso pubblico di numerosi protagonisti politici dell’opposizione (p.es. Carofiglio stasera a La7) ci siamo già. Questo modo sofistico di argomentare crea grandi illusioni e gravi cortocircuiti nell’opinione pubblico di cui qualcuno fra gli esperti cattedrati dovrebbe assumersi la responsabilità. Questo non è più democrazia, questo è teatro di sofismi pseudo-giuridici. I pentastellati vorrebbero inoltre sostituire la responsabilità degli eletti, pardon dei nominati, con una pseudo-democrazia, l’inganno dispotico di un sondaggio privato senza garanzie fra mezzo milioni di sprovveduti. Salvini e coloro che commettono o permettono le forzature alla legge, le violazioni delle libertà individuali, vanno combattuti e netralizzati con i mezzi politici, fra cui un dibattito veritiero, non con procedure giudiziarie. Come mai nessuno fra ministero e commando della nave o del porto è passato oltre la forzatura del ministro per far valere la legge? Dopo la seconda guerra tutti i responsabili subalterni in Germania hanno insistito che hanno solo eseguito degli ordini….

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  2. Sul forum dei QC del 18 marzo Leonardo Brunetti si chiede se gli atti politici sono davvero insindacabili. Come se la domanda fosse: ma un ministro, nel esercizio delle sue prerogative di governo (prerogativa sta per potere di agire immediato), può violare (la legge o) la Costituzione? Ovviamente no. Ma questa domanda è troppo facile ; è quella sbagliata. Quella giusta è la seguente: qualsiasi atto di un ministro è sindacabile? Ovviamente si. Come? Su iniziativa dei magistrati, dice la Costituzione, ma solo se il Parlamento concede l’autorizzazione di procedere. Se non la concede, c’è un giudice superiore, il popolo elettore che alla successiva tornata elettorale può sanzionare, se lo ritiene, coloro che hanno negato l’autorizzazione. Ma attenti, questo presuppone una legge elettorale democratica! Oltre il popolo elettorale (che agisce nelle forme e alle condizioni della Costituzione – clamorosamente violate dalla legge elettorale) c’è solo quell’altro popolo, quello a cui Locke si referiva con l’appello a cielo.

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