Abolire il codice degli appalti … e poi?

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di Giuseppe Tropea e Annalaura Giannelli

La grave crisi sanitaria ed economica in atto ha ispirato, presso la dottrina giuspubblicistica, un intenso dibattito che, soprattutto nelle ultime settimane, si è appuntato anche sul tema della revisione della disciplina degli appalti pubblici. Quest’ultima, infatti, viene per lo più considerata, a causa della sua intrinseca complessità, un potenziale ostacolo rispetto al dispiegarsi delle prospettive di ripresa economica in cui il Paese ripone fiducia o, quantomeno, speranza.

Nei convegni, ovviamente telematici, che hanno animato le giornate degli accademici in quarantena, nonché sulle pagine di autorevoli quotidiani, spesso si è affermato, con apprezzabile schiettezza, che la strada per la ripresa dovrebbe passare per l’attuazione di riforme radicali, essenzialmente compendiabili, in tema di commesse pubbliche, nel suggestivo slogan “abolire il codice degli appalti”.

Prima di soffermarsi sulle possibili criticità che si accompagnano a questa ipotesi, è doveroso riferire quelle che presumibilmente ne sono le ragioni ispiratrici. È ragionevole credere che esse risiedano nell’idea, di per sé tutt’altro che infondata, per cui il codice in questione contempli regole “esorbitanti” rispetto al contenuto delle previsioni comunitarie di cui il d. lgs. n. 50/2016 è attuazione. In altre parole, abrogando (o sospendendo) il codice degli appalti ci si libererebbe di quelle “gabbie dorate” che proprio l’UE avversa, laddove invita gli Stati membri ad astenersi da iniziative di sovra-regolamentazione rispetto al parametro rappresentato giustappunto dalle direttive europee in tema di contratti pubblici.

Ebbene, chiariti gli intenti della prospettiva “abolizionista”, ci si può confrontare sulle conseguenze che da essa potrebbero scaturire.

In quest’ottica, una prima critica – forse tacciabile di un certo formalismo – investe il problema dei rapporti con le fonti europee. L’abrogazione/sospensione del codice degli appalti viene, infatti, sovente invocata come mezzo per raggiungere un risultato ulteriore, consistente nella applicazione delle direttive europee del 2014. Il tutto sulla scorta dell’assunto, su cui pare lecito nutrire qualche perplessità, per il quale le direttive in questione disegnerebbero procedure di acquisto connotate da un significativo surplus di semplicità e snellezza. Al netto di questo convincimento, sulla cui fondatezza di seguito si avrà modo di soffermarsi brevemente, il primo dato da “testare” consiste proprio nella fattibilità di una sorta di inversione di marcia, relativa, ovviamente, ai processi di recepimento delle direttive. È consentito, dopo il perfezionamento delle iniziative di recepimento, appellarsi al (presunto, ma cfr. infra) carattere self executing delle direttive per predicarne la diretta applicazione? In altre parole: è possibile considerare il recepimento avvenuto nel 2016 tamquam non esset, ed invocare l’efficacia diretta della fonte europea, come se essa, sul fronte nazionale, non fosse mai stata attuata?    

Rispetto a questo profilo occorre innanzitutto ricordare che l’efficacia diretta è concepita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia come una sanzione nei confronti degli Stati inadempimenti, non come un fisiologico meccanismo per realizzare gli obiettivi di armonizzazione. Per questa ragione la Corte ammette l’efficacia diretta nei soli rapporti “verticali”, in cui il privato rischia di vedere sacrificata l’effettività di un diritto assegnato per l’appunto dalle direttive auto-applicative. Nell’ipotesi auspicata dalla tesi abolizionista lo scenario è del tutto differente: non solo perché il recepimento pur sempre vi è stato, ma anche perché le direttive non assegnano ai singoli (nel caso di specie: le imprese interessate alle commesse) puntuali situazioni attive, eventualmente da rivendicare a fronte del mancato (ergo: “cancellato”) recepimento. Il carattere essenzialmente procedurale delle norme dettate dalle direttive di cui parliamo rende, in altre parole, difficile inquadrare gli effetti di queste ultime nella alternativa tra effetti verticali e orizzontali, che sappiamo essere dirimente in tema di diretta applicabilità della fonte europea in ipotesi non recepita.

In concreto: come escludere che l’abrogazione/sospensione della disciplina di recepimento delle direttive 2014 possa dar luogo all’apertura di una procedura di infrazione, così come sarebbe potuto succedere se le direttive in questione non fossero mai state recepite? Sul piano politico è forse improbabile che la Commissione europea, in un frangente così delicato, assuma iniziative di questo tipo. Ciò non toglie, tuttavia, che l’idea della applicabilità della direttiva previa “cancellazione” dei relativi atti di recepimento rischia di rappresentare un insidioso precedente, dal quale per l’appunto potrebbero scaturire conseguenze non trascurabili, in termini sia politici che economici, come la sottoposizione ad una procedura di infrazione. Del resto, ad un osservatore smaliziato potrebbe apparire troppo comoda la scelta, di uno Stato membro, di realizzare un recepimento frettoloso per scongiurare la procedura di infrazione, contando poi di abrogare la normativa di attuazione facendo affidamento sul presunto (persistente) carattere auto-applicativo della direttiva “fittiziamente recepita”.

Il secondo aspetto con cui occorre fare i conti consiste nella verifica del carattere realmente auto-applicativo delle direttive 2014 in materia di appalti. Anche a voler accantonare le perplessità sopra espresse in merito alla “reviviscenza” di una direttiva pur sempre recepita (sia pure da un atto poi abrogato), resta da verificare se le direttive da cui è scaturito il codice di cui si discute effettivamente contengano norme così dettagliate da rendere le direttive medesime auto-applicative. La risposta non può essere totalmente positiva. Invero, in termini generali il fatto che una direttiva contenga sia previsioni dettagliate (e dunque potenzialmente auto-applicative) che previsioni prive di tale attributo di per sé non è un problema. In questa situazione si assiste alla parziale diretta applicazione della disciplina europea non recepita e, per converso, alla necessità della emanazione di una normativa interna di dettaglio per i restanti ambiti.

Il caso che ci occupa, tuttavia, è più complesso. Nelle direttive del 2014 vi sono, infatti, numerose norme che espressamente rimettono agli Stati membri la scelta tra diverse opzioni circa le modalità di conduzione di una determinata procedura di aggiudicazione. Il punto non è, quindi, il carattere non sufficientemente dettagliato di alcune norme europee in tema di appalti, ma il fatto che alcune norme delle direttive in questione “dialoghino” con il legislatore nazionale rimettendo a quest’ultimo scelte che non possono essere “rilanciate” nella metà campo europea. Ciò per il semplice fatto che, rispetto ad istituti cruciali, il legislatore europeo – consapevole delle specificità dei contesti nazionali – ha prospettato una pluralità di scelte di regolamentazione possibili, il che rende impraticabile la strada delle abrogazione del codice finalizzata alla applicazione omisso medio della direttiva. Gli esempi che, in tal senso, possono essere forniti riguardano istituti cruciali, primo fra tutti quello relativo alle cause di esclusione dalle gare, previste dall’art. 57 della direttiva 2014/24/UE. Ai parr. 3 e 4 dell’articolo in questione si prevede che gli Stati membri possano prevedere deroghe alle cause di esclusione dettate dal par. 1 per esigenze di salute pubblica, di tutela dell’ambiente o di rispetto del principio di proporzionalità (con riguardo alle esclusioni derivanti da violazioni di natura fiscale e tributaria). È chiaro che qui l’intento espresso della direttiva è stato quello di sollecitare il discernimento del legislatore nazionale, che dunque non può essere pretermesso dal processo di attuazione del diritto UE. Oppure si pensi, restando in materia di cause di esclusione, a quanto previsto sempre dal par. 4 dell’art. 57, laddove si dispone che il legislatore nazionale, in deroga alla prima parte dello stesso par. 4, possa stabilire che non venga escluso l’operatore sottoposto a fallimento (o soggetto a concordato preventivo) laddove quest’ultimo possa eseguire il contratto in base alla disciplina nazionale sulle procedure concorsuali. O ancora veda, in tema di subappalto, quanto disposto dal par. 7 dell’art. 72, ai sensi del quale gli Stati membri possono prevedere pagamenti diretti ai subappaltatori senza la necessità che questi ultimi ne facciano richiesta. Infine, con riguardo alla fase di esecuzione, merita di essere richiamato l’art. 73, in cui si prevede che gli Stati membri assicurino alle amministrazioni aggiudicatrici la possibilità di risolvere il contratto «almeno» in presenza di una delle tre circostanze di seguito indicate dall’articolo medesimo.

Si potrebbe obiettare che norme del genere si limitano a riconoscere una possibilità al legislatore nazionale, e che dunque tale possibilità debba ritenersi in qualche modo semplicemente non sfruttata laddove il recepimento non ci fosse o, come taluni auspicano, venisse meno. La situazione, tuttavia, non pare così semplice: la scelta del legislatore UE risulta, infatti, ispirata dalla volontà di sollecitare una consapevole presa di posizione in sede nazionale. Il che non consente di accettare, ex post, soluzioni che disconoscano il potere/dovere degli Stati di prendere posizione sui profili rispetto ai quali sono stati puntualmente “interpellati” dalla direttiva.

Il terzo aspetto concerne il “linguaggio” delle direttive, che talvolta non ha connotati di estremo tecnicismo proprio in ragione degli obiettivi di armonizzazione perseguiti. Un caso per tutti: il già citato art. 57, al par. 1 include tra le cause di esclusione la condanna passata in giudicato relativa a fattispecie di reato che non trovano diretta corrispondenza nel novero delle fattispecie di reato che popolano il disciplina penalistica. La stessa vaghezza, sempre nel par. 1 dell’articolo in questione, riguarda poi l’individuazione dei soggetti – intesi come persone fisiche – rispetto ai quali si debba verificare, ai fini della partecipazione alla gara dell’impresa di “appartenenza”, l’assenza delle sentenze di condanna. Abrogare il codice, per “tornare alla direttiva” significherebbe, dunque, rinunciare ad una considerevole dose di certezza che, per l’appunto, è stata impressa al sistema dalla normativa nazionale di recepimento, la quale, ad esempio, ha puntualmente elencato i reati rispetto ai quali l’eventuale condanna possa esprimere effetti preclusivi sul fronte dell’ammissione in gara. Questa rinuncia in termini di certezza, oltre a non agevolare le auspicate dinamiche di ripresa del mercato, difficilmente può considerarsi compatibile con i principi di concorrenza e favor partecipationis.

Le considerazioni sinora svolte hanno avuto un dichiarato intento critico, ma esso non vuole e non può tradursi in un atteggiamento di irresponsabile rassegnazione rispetto alle evidenti difficoltà che la vigente normativa degli appalti pone agli operatori del diritto, primi fra tutti i funzionari pubblici, talvolta ingiustamente condannati al ruolo di comodi capri espiatori.

La prospettiva “abolizionista” coglie nel segno nella individuazione dei problemi, ma si espone alle criticità sopra indicate nella formulazione di possibili soluzioni.

Le “gabbie dorate” certamente esistono, ma rispetto ad esse occorre laicamente riconoscere almeno due circostanze.

La prima concerne il fatto che molte di esse (ossia molte delle norme, o delle interpretazioni, nazionali che innalzano il livello della regolamentazione fissato in sede europea) non hanno un concreto effetto di rallentamento sulle procedure, pur potendo porre problemi sul diverso terreno della compatibilità rispetto al diritto UE (che come noto ripudia il gold plating). Gli esempi più efficaci sono offerti dalla disciplina del subappalto. È noto che il legislatore nazionale ha introdotto un limite quantitativo al subappalto privo di premesse nelle direttive europee, e perciò considerato (quantomeno nell’originaria quantificazione pari al 30% del valore della commessa) contrastante con il diritto UE proprio perché frutto di una iniziativa di iper-regolamentazione (Corte di Giustizia, causa C-63/18, sentenza 26 settembre 2019; C-402/18, sentenza 27 novembre 2019). Lo stesso si può dire per il divieto di subappalto a cascata, puntualmente censurato dalla Commissione in sede di procedura di infrazione (infrazione 2018/2273).

Ebbene, liberandoci del codice certamente depureremmo l’ordinamento da queste incrostazioni, ma ciò non determinerebbe alcun effetto positivo sul fronte della semplificazione e velocizzazione delle procedure.

Inoltre, non si può trascurare il fatto che il codice degli appalti non sia l’unica, e neppure la principale, sede in cui le “gabbie dorate” vengono costruite. Esse, innanzitutto, albergano spesso nella cultura giuridica degli interpreti, ancora ispirata ad una diffidenza nei confronti di istituti che implicano l’investimento, da parte del compratore pubblico, di un significativo margine di discrezionalità. Non solo, a dover essere prese in considerazione sono anche i piani anticorruzione di cui devono dotarsi i singoli enti pubblici. Tali atti, come noto, presentano come contenuto fondamentale e indefettibile la predisposizione di stringenti misure di gestione del rischio le quali debbono riguardare, secondo quanto prescritto dalla disciplina anticorruzione, sempre e comunque i processi (l’uso del lemma aziendalistico “processi” in luogo di “procedimenti” è frutto delle indicazioni rivolte da Anac agli enti tenuti alla redazione dei piani) in materia di affidamento delle commesse. Tali misure, per essere effettive come raccomanda annualmente Anac nel piano nazionale, devono tradursi in regole che non si limitino a parafrasare il contenuto delle vigenti prescrizioni legislative. Ecco che, dunque, i piani in questione si rivelano una sede naturale di proliferazione del gold plating (che potremmo definire “coatto”), e comunque di perpetuazione della cultura della iper-regolazione in luogo di quella della sperimentazione di buone pratiche in vista di una contrattazione efficiente, oltre che legittima.    

In conclusione, l’abrogazione del codice è di certo allettante, ma lo stesso potrebbe dirsi della mela di Biancaneve. Le “complicazioni della semplificazione” sono tuttora un ossimoro solo apparente. Prima ce ne renderemo conto e prima potremo innescare dinamiche di cambiamento che non costringano a dolorose rinunce sul piano della certezza, che resta, nonostante tutto, un indefettibile presupposto per l’efficienza delle regole del gioco.

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