di Alessandro Morelli
Non si sono fatte attendere le prime applicazioni del “Daspo urbano”, sanzione amministrativa prevista dal decreto-legge sulla sicurezza voluto dal ministro Marco Minniti, da poco varato dal Governo e in attesa di conversione da parte delle due Camere. A essere colpiti, nei giorni scorsi, dalle nuove misure anche alcuni writers spagnoli che avevano imbrattato qualche vagone della metropolitana milanese, ai quali è stato temporaneamente precluso di accedere a tutte le linee e le fermate della stessa. La nuova misura ha suscitato accese polemiche e, accanto a critiche di natura squisitamente politica, anche dubbi di legittimità costituzionale.
In cosa consiste e quando si applica esattamente la nuova sanzione amministrativa fortemente voluta e difesa dal Ministro dell’Interno? A prescindere dall’ispirazione e dall’efficacia di tale provvedimento, la normativa che lo prevede pone davvero tutti i problemi di compatibilità con il dettato costituzionale prospettati in questi giorni da qualche commentatore?
Proviamo a fare un po’ di chiarezza, a cominciare dal nome della misura sanzionatoria. Perché “Daspo urbano”? La denominazione tende certo a semplificare, ma non sembra che sia giustificata, come ha scritto Roberto Saviano su La Repubblica del 18 marzo scorso, soltanto dal fatto che “in Italia tutto è calcio e tifo, anche la politica”. Il riferimento al Daspo (acronimo che sta per “divieto di accesso alle manifestazioni sportive”) ha una precisa base normativa. Gli artt. 9 e seguenti del decreto-legge n. 14 del 2017, che prevedono questo nuovo provvedimento volto a tutelare la “sicurezza delle città” e il “decoro urbano”, fanno espresso rinvio, infatti, alla disciplina sul Daspo, prevedendone l’applicazione, ove possibile, anche per le modalità di adozione della nuova misura di prevenzione. Tanto il provvedimento preclusivo dell’accesso alle manifestazioni sportive quanto quello da ultimo introdotto incidono, quindi, sui medesimi diritti di libertà e pongono, come si vedrà, problemi analoghi.
In cosa consiste, dunque, tale sanzione?
Si prevede, innanzitutto, che chiunque ponga in essere condotte che impediscono la libera accessibilità e fruizione delle “infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze”, “in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti”, è soggetto, oltre che al pagamento di una somma da 100 a 300 euro, all’“allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto”. Il medesimo provvedimento è disposto anche nei confronti di chi è colto in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza o compia atti contrari alla pubblica decenza. Si stabilisce, inoltre, che i regolamenti di polizia urbana possano individuare “aree urbane su cui insistono musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico”, alle quali si applicano le suddette sanzioni. L’autorità competente è il sindaco del comune nel cui territorio sono state accertate le violazioni sanzionabili, che può sollecitare l’emissione dell’ordine di allontanamento da parte delle autorità di pubblica sicurezza. Nel provvedimento si deve specificare che ne cessa l’efficacia trascorse quarantotto ore dall’accertamento del fatto e che la sua violazione è soggetta alla prevista sanzione amministrativa pecuniaria, aumentata del doppio. Copia del provvedimento è immediatamente trasmessa al questore competente per territorio con la contestuale segnalazione ai servizi socio-sanitari, qualora ne ricorrano le condizioni. Se la condotta è reiterata e qualora dalla stessa possa derivare pericolo per la sicurezza, il questore può disporre, con provvedimento motivato, per un periodo non superiore a sei mesi, il divieto di accesso a una o più delle aree tutelate, espressamente specificate nel provvedimento, “individuando, altresì, modalità applicative del divieto compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario dell’atto”.
Altre disposizioni del decreto introducono novità riguardanti le occupazioni arbitrarie d’immobili, i pubblici esercizi e il contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici, aperti al pubblico e di pubblici esercizi. In particolare, si prevede che nei confronti delle persone condannate anche solo con sentenza confermata in appello nel corso degli ultimi tre anni per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope, “per fatti commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di locali pubblici, aperti al pubblico” o in un pubblico esercizio, il questore può disporre, “per ragioni di sicurezza, il divieto di accesso agli stessi locali o a esercizi analoghi, specificamente indicati, ovvero di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi”. Tale divieto non può avere durata inferiore a un anno e superiore a cinque. Si reintroducono, inoltre, alcune misure adottabili dal questore nei confronti di soggetti condannati negli ultimi tre anni con sentenza definitiva, già incluse nel decreto-legge n. 272 del 2005, convertito con modificazioni dalla legge n. 49 del 2006. Tali previsioni erano state annullate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 94 del 2016, poiché introdotte in sede di conversione del suddetto decreto, per eterogeneità delle medesime rispetto al contenuto, alla finalità e alla ratio complessiva dell’originario provvedimento. Si tratta di un’ipotesi che non sembrerebbe ricorrere però in questo caso, poiché adesso le disposizioni sono già presenti nel testo originario dell’atto normativo e non appaiono estranee al contenuto complessivo dello stesso. È probabile che esse resistano a un eventuale controllo di legittimità costituzionale sulla sussistenza dei presupposti di necessità e di urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. per l’adozione dei decreti-legge (in riferimento ai quali, com’è noto, la Corte sanziona solo l’“evidente mancanza”, che qui non sembrerebbe ricorrere).
In sede di conversione sono stati già approvati alcuni emendamenti, tra cui quello che prevede, per i reati in cui l’arresto è obbligatorio, la possibilità dell’arresto in flagranza differita, già prevista dalla disciplina sul Daspo. Deve trattarsi di reati con violenze alle persone o alle cose che avvengano durante o in occasione di manifestazioni pubbliche e siano ripresi da telecamere e in immagini fotografiche. L’identificazione deve comunque avvenire entro quarantotto ore dal fatto.
Qualcuno ha sostenuto che il decreto sulla sicurezza reintrodurrebbe la figura del “Sindaco sceriffo”, già bocciata nel 2011 dalla Corte costituzionale nella sent. n. 115, relativa all’art. 54, comma 4, del Testo unico sugli enti locali (sostituito dal “decreto Maroni” del 2008). Tale previsione attribuiva ai sindaci il potere di emanare, accanto a ordinanze “contingibili e urgenti”, provvedimenti di ordinaria amministrazione che, pur non potendo derogare alle leggi e ai regolamenti vigenti, si presentavano, secondo quanto affermato dal Giudice delle leggi, come “esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico, genericamente identificato dal legislatore nell’esigenza ‘di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana’”. La Corte ha dichiarato illegittima tale norma sulla base del presupposto che essa violava il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Secondo tale principio, non sarebbe consentita “l’assoluta indeterminatezza” del potere conferito dalla legge a un’autorità amministrativa, circostanza che produrrebbe l’effetto di attribuire una “totale libertà” al soggetto od organo investito della funzione. In altri termini, non sarebbe sufficiente che il potere (in questo caso attribuito ai sindaci) sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, occorrendo che il suo esercizio sia determinato “nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa”.
Le misure previste dall’ultimo decreto-legge sulla sicurezza presentano i medesimi vizi d’incostituzionalità?
Il decreto n. 14 del 2017 non attribuisce ai sindaci un potere generale di emanare provvedimenti di ordinaria amministrazione come quelli introdotti dalla disciplina del 2008. Amplia, tuttavia, gli ambiti di adozione delle ordinanze contingibili e urgenti, aggiungendo all’art. 50 del Testo unico sugli enti locali una disposizione a norma della quale i medesimi provvedimenti possono essere adottati per far fronte all’“urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti”. Si prevede, inoltre, un’ulteriore ipotesi di ordinanza non contingibile e urgente con la quale il sindaco può disporre (per un periodo comunque non superiore ai sessanta giorni) limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche, al fine di “assicurare le esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti in determinate aree delle città interessate da afflusso di persone di particolare rilevanza, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi”. Non sembra potersi escludere del tutto che la genericità delle formule impiegate (quali, soprattutto, quelle del “decoro” e della “vivibilità urbana”) pongano problemi sul piano della previa identificabilità delle situazioni di fatto nelle quali è possibile esercitare il potere in questione. In altri termini, si riproporrebbe, sotto altra forma, un’ipotesi di contrasto con il principio di legalità sostanziale già richiamato dalla Corte nella sent. n. 115 del 2011, poiché le espressioni impiegate potrebbero non essere giudicate idonee a delimitare sufficientemente la discrezionalità dell’amministrazione. D’altro canto, il vincolo costituito dai requisiti dell’indifferibilità e dell’urgenza potrebbero essere ritenuti, in sede di controllo di costituzionalità della previsione, sufficienti a delimitare l’ambito applicativo dei provvedimenti del sindaco.
Quanto all’estensione dell’ambito di applicazione del Daspo, operata dal decreto sulla sicurezza, occorre tenere conto del fatto che anche la disciplina relativa al divieto di accesso alle manifestazioni sportive ha suscitato dubbi di costituzionalità ed è stata più volte portata davanti al Giudice delle leggi. È vero, tuttavia, che finora tale misura non è stata ritenuta assimilabile a quella dell’obbligo di comparizione: secondo la Corte, infatti, il divieto di accesso inciderebbe sulla libertà di circolazione (art. 16 Cost.), l’obbligo di comparizione sulla libertà personale (art. 13 Cost.), richiedendo maggiori garanzie, che troverebbero completamento “nel previsto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di convalida del Giudice per le indagini preliminari”. Benché la misura del divieto di accesso comporti una “minore incidenza sulla sfera della libertà del soggetto” rispetto a quella determinata dalla misura dell’obbligo di comparizione, anch’essa richiede però una “ponderata valutazione delle circostanze oggettive e soggettive” che ne legittimano l’applicazione (sent. n. 193 del 1996).
Non sembra, in conclusione, che il decreto sulla sicurezza riapra le porte ai “sindaci sceriffo”. Gli interventi previsti dalla nuova disciplina restano limitati dai presupposti dell’indifferibilità e dell’urgenza o si traducono in sollecitazioni di misure restrittive della libertà di circolazione, che dovranno comunque essere adottate dall’autorità di pubblica sicurezza, nei limiti e alle condizioni previste dalla legge e ferma restando la possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria. Riguardo a questi ultimi provvedimenti si ripropongono certo i problemi da sempre segnalati in dottrina e giurisprudenza in merito alle misure di prevenzione, che, data la loro specifica funzione, prescindono dall’accertamento giudiziale di fattispecie delittuose e si basano su elementi indiziari e semplici sospetti.
La questione si fa ancor più complessa a fronte dei rischi che oggi corre la sicurezza dei cittadini, nelle sue diverse declinazioni. Rischi che certamente impongono il coinvolgimento di tutti i soggetti pubblici, a ogni livello istituzionale, ma che non possono indurre a trascurare le esigenze di garanzia della legalità e di protezione dei diritti fondamentali.
1 commento su “Daspo urbano: tornano davvero <br> i sindaci sceriffo?”