di Davide Galliani
Sembra interessante segnalare la “nuova” importanza che sta assumendo il tema dei precedenti giurisprudenziali, da sempre all’attenzione dei giuristi, che tuttavia proprio nell’attuale momento è destinato a diventare di ancora più cruciale rilevanza. Il “merito” va ascritto anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo o, meglio, all’impostazione prescelta ad oggi da parte della Corte costituzionale italiana per “regolare” le relazioni tra i giudici italiani e la Corte di Strasburgo.
Il giudice delle leggi, a quasi dieci anni di distanza dalle sentenze quasi gemelle del 2007, ha rimodulato alcune delle coordinate fondamentali del rapporto tra i giudici italiani e la Corte europea, sostenendo, nella nota sent. 49/2015, confermata dalla n. 36/2016, che i primi devono conformarsi (appunto) alla sola giurisprudenza consolidata della seconda. Se l’orientamento di Strasburgo non è consolidato, i giudici italiani restano liberi di decidere come credono. E, ovviamente, in questo confermando l’orientamento del 2007, la Corte costituzionale ha rafforzato il fatto che resta preclusa, per i giudici italiani, la possibilità di disapplicare una legge nel caso di contrasto con la giurisprudenza (consolidata) di Strasburgo, dovendo invece sollevare in questi casi la questione di costituzionalità. Conscio della problematica, il giudice costituzionale ha anche indicato taluni “indici” grazie ai quali i giudici italiani potrebbero meglio comprendere se sono alla presenza o meno di un orientamento consolidato.
Senza considerare i pregi e i difetti di questa impostazione della Corte costituzionale, così come la persuasività o meno degli indici evocati, di certo è che è proprio il tema dei precedenti a entrare prepotentemente in gioco. Non che sia una novità, ma di sicuro l’aspetto interessante è rappresentato dal fatto che ora i giudici italiani, per decidere come procedere nel caso di specie, devono essere in grado di maneggiare “in chiave” di precedenti la giurisprudenza di Strasburgo. Quindi, oltre a valutare il “peso” dei precedenti decisi dal giudice delle leggi, oltre a considerare la “persuasività” dei precedenti decidi dal giudice di legittimità, i giudici italiani sono ora chiamati a valutare anche l’esistenza o meno di un orientamento consolidato della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un compito non facile, ma sicuramente intrigante, peraltro ennesima riconferma di quanto oramai le “somme” distinzioni con le quali siamo soliti confrontarci siano da riconsiderare, come per esempio la distinzione tra le famiglie di ordinamenti appartenenti all’area di civil law e quelle di common law.
In siffatto scenario, segnaliamo un recentissimo caso deciso a Strasburgo e un libro che sempre di recente è stato ampiamente commentato in Italia. In entrambi i casi, vi è molto “materiale” sul quale poter ulteriormente riflettere sul tema dei precedenti nel mondo del diritto, in particolare del diritto costituzionale.
La Prima Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, il 6 aprile 2017, all’unanimità, ha emesso una decisione nel caso Alessandra Battista e altri v. Italia, ricorso 22045/14, riguardante i ben noti fatti accaduti alla caserma di Bolzaneto nel 2001. La Corte ha preso atto di un réglement amiable raggiunto tra i cinque ricorrenti e la parte resistente, il Governo italiano. Di conseguenza, ha deciso di radiare dal ruolo il caso, considerando che l’accordo rispetta i diritti dell’uomo riconosciuti dalla Convenzione e che non esiste alcun giustificato motivo per proseguire nell’esame del ricorso.
L’accordo in breve è stato il seguente. Il Governo ha riconosciuto i mauvais traitements nella caserma di Bolzaneto, così come l’assenza di disposizioni legislative adeguate per punirli; si è impegnato ad adottare tutte le misure necessarie per garantire il rispetto dell’art. 3 della Convenzione, vale a dire l’approvazione della legge sul reato di tortura, oltre che il soddisfacimento dell’obbligo di condurre delle inchieste penali effettive; inoltre, sempre il Governo ha dichiarato di impegnarsi nel mettere a disposizione della forze dell’ordine un’adeguata e specifica formazione nel campo del rispetto dei diritti dell’uomo; infine, è stato proposto un risarcimento di 45.000 euro a ciascuno dei cinque ricorrenti (lo stesso accordato nel caso Cestaro v. Italia del 7 aprile 2015). Da parte loro, i ricorrenti hanno rinunciato a ogni ulteriore pretesa nei confronti del nostro paese in merito ai fatti all’origine del ricorso.
A parere di chi scrive, il problema principale della decisione della Corte, adottata si ripete all’unanimità, non riguarda né il versante dei ricorrenti né quello della parte resistente. Non sappiamo esprimerci sulla questione della “credibilità” del nostro paese, se è stata in questo modo “difesa” (evitando una quasi certa e non prima condanna per violazione del divieto di tortura) oppure se ne è uscita “distrutta” (da un punto di vista sostanziale ha riconosciuto tutte le doglianze dei ricorrenti ed ha ribadito degli “impegni” che da tempo oramai immemore ha sostenuto di voler soddisfare). Nemmeno abbiamo alcuna competenza per esprimere una qualche riflessione sulla posizione dei ricorrenti, le cui valutazioni restando soggettive e individuali, in sé forse da nessuno contestabili.
Vogliamo però dire con molta chiarezza una cosa: una Corte europea dei diritti dell’uomo non dovrebbe mai accettare dei compromessi in materia di proibizione della tortura. Possono essere proposti dai Governi, essere accettati dai ricorrenti, ma una Corte europea dei diritti dell’uomo dovrebbe semplicemente evitare di accogliere simili accordi. Tra i molti motivi, ne vogliamo indicare uno: si tratta di decisioni che “distruggono” insieme l’attendibilità di quella Corte e l’importanza della sua giurisprudenza alla quale si dovrebbe poter guardare anche in termini di consolidamento e quindi di precedenti. Si possono anche comprendere le motivazioni che hanno spinto la Prima Sezione ad accettare la risoluzione amichevole, ma riteniamo che abbiano poco a che fare con il mondo del diritto, in particolare con quello dei diritti umani, che “dovrebbe” fare della Corte di Strasburgo una sorta di corte costituzionale europea, almeno una corte il cui ambito di azione è di certo materialmente costituzionale. Soprattutto, la decisione nel caso Bolzaneto è l’ennesima dimostrazione che il riferimento a orientamenti giurisprudenziali consolidati è in sé anche positivo, ma poi moltissimo dipende dalla corte alla quale si guarda per ricercare i precedenti: campo abituale di “lavoro” per le Corti costituzionali, sforzo “enorme” per i giudici di legittimità incaricati di nomofilachia, ma davvero dei più problematici se ci si riferisce alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Anche sostenendo che il suo precipuo compito non è il consolidamento, ma affermare giusta giustizia, di certo il caso Bolzaneto la vede “perdere” su entrambi i fronti, poiché, di fatto, ha adottato una logica di giudizio “intergovernativa” e di certo poco “sovranazionale”.
Infine, riteniamo utile segnalare, convinti dell’importanza del dialogo tra la dottrina e i giudici, forse il vero e proprio “dialogo”, un libro di Frederick Schauer, Thinking Like a Lawyer: A New Introduction to Legal Reasoning, pubblicato nel 1999 dalla Harvard Universitary Press, che di recente è stato oggetto di diversi approfondimenti in un simposio appositamente dedicato nella rivista Materiali per una storia della cultura giuridica, numero 1 del 2017. I commenti sono di Giovanni Battista Ratti, Mauro Barberis, Jorge Luis Rodriguez e Pierluigi Chiassoni, ai quali segue un articolato scritto di risposta dello stesso Schauer. La tesi di fondo dell’autore, Professor of Law alla School of Law dell’Università della Virginia, le cui pubblicazioni possono essere consultate qui, è che esiste una fondamentale differenza tra il precedente e l’analogia, tra il ricorso ai precedenti e l’utilizzo dell’analogia.
Un tema di fondamentale e rilevante interesse, da sempre ma ancora di più oggi, nel momento in cui, a qualunque corte appartengano, è richiesto ai giudici un compito davvero formidabile, quello di tenere insieme certezza e giustizia, in un contesto nel quale però, a differenza di ieri, abbiamo certamente più “contezza” circa l’esistenza di un qualche minimo comune denominatore di giustizia, la cui capacità di consolidarsi in fin dei conti è però pur sempre da verificare giorno per giorno, non solo per quello che le corti decidono, ma anche per ciò che decidono di non decidere, poiché, come ha scritto Edgard Morin, ciò che illumina resta sempre nell’ombra.