No in my country: i sindaci sceriffi e le ordinanze anti-profughi

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di Stefano Rossi

La notizia è passata come una delle tante stravaganze estive e forse per questo è sfuggita ai più ed è stata confinata (e sottovalutata) nelle pagine della cronaca locale della Lombardia. Il riferimento è alla campagna sistematica organizzata dai sindaci della Lega Nord che hanno adottato delle ordinanze fotocopia, con l’intento di boicottare il sistema approntato dal Ministero dell’Interno per favorire la cosiddetta “accoglienza diffusa” attraverso l’accordo diretto tra Prefettura e proprietari di immobili che vogliano destinarli all’accoglienza dei richiedenti asilo.

Così in particolare in terra bergamasca – che già all’epoca del decreto Maroni si era distinta per la fantasia discriminatoria dei suoi primi cittadini – oltre una decina di sindaci “sovranisti” hanno disposto, con ordinanza contingibile ed urgente, a carico di una moltitudine di soggetti destinatari (qualificati quali «proprietari o soggetti aventi il possesso o la disponibilità» di beni immobili che possano essere adibiti ad alloggi e strutture per accoglienza di richiedenti asilo) una serie di obblighi ed oneri elencati nei provvedimenti fotocopia.

In particolare in detti provvedimenti si prevede: a) l’obbligo imposto ai proprietari, ai titolari di un diritto reale o di godimento su immobili di comunicare preventivamente all’Amministrazione comunale la sottoscrizione di contratti di locazione o comodato per finalità inerenti l’ospitalità dei richiedenti asilo; b) l’obbligo imposto ai proprietari, conduttori o gestori di immobili siti nel territorio comunale di comunicare la partecipazione a bandi indetti da qualsivoglia Organo pubblico al fine dell’ospitalità e gestione dell’emergenza richiedenti asilo, nonché di comunicarne l’esito entro 5 gg. dalla pubblicazione delle graduatorie; c) l’obbligo imposto ai proprietari, conduttori o gestori di immobili siti nel territorio comunale di comunicare, con preavviso di 15 gg., la sottoscrizione di accordi, contratti o convenzioni con gli Organi ed Amministrazioni pubbliche deputate alla gestione dell’emergenza profughi; d) l’obbligo imposto ai proprietari, conduttori o gestri di immobili siti nel territorio comunale di produrre all’Autorità comunale, entro 5 gg. dalla sottoscrizione, il contratto suddetto, con allegata copia della certificazione di conformità degli impianti; e) l’obbligo imposto al soggetto privato contraente di comunicare, a mezzo di una relaziona a cadenza quindicinale, l’organizzazione interna della struttura, consistente nel numero delle persone ospitate, nonché di ogni altra informazione riguardante la salute dei medesimi.

In caso di mancato adempimento di tali obblighi ed oneri le ordinanze prevedono l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniarie, unitamente alla minaccia della denuncia all’Autorità giudiziaria per violazione dell’art. 650 c.p.

Dalla lettura dei diversi provvedimenti sindacali emergono plurime criticità, autorevolmente contestate anche dalla Prefettura di Milano ad un sindaco della provincia che ha imitato i colleghi bergamaschi.

Entrando nel merito, in primo luogo, è perlomeno dubbia la legittimità della scelta, attraverso un provvedimento sindacale che assuma la forma di una «ordinanza contingibile e urgente», di imporre obblighi ed oneri ad una moltitudine  indistinta  di cittadini, senza che tali previsioni trovino giustificazione in atti normativi primari: in specie obblighi di comunicazione “preventiva”  (e ci si chiede come sia possibile imporre l’obbligo di comunicare un evento non ancora accaduto) all’Ente comunale in ordine alla stipula di negozi giuridici (contratti di locazione, comodato o altro), ancora obblighi di informare l’Ente comunale dell’intenzione di partecipare a bandi per l’accoglienza dei richiedenti asilo (influendo, in termini deteriori, sulla libertà di partecipazione ai bandi pubblici che, come noto, si connotano per la concorsualità e segretezza delle offerte), nonché tutta una serie di ulteriori vincoli, da ultimo quello – posto a carico del soggetto gestore del progetto di accoglienza – di inviare all’Ente comunale ogni quindici giorni una relazione sull’organizzazione interna, ovvero «sul numero delle persone ospitate, nonché di ogni altra informazione riguardante la salute dei medesimi», il che presupporrebbe a carico dei soggetti obbligati a tale dichiarazione il rischio di effettuare un trattamento illecito di dati sensibili e di natura sanitaria.

L’ordinanza obbliga quindi i richiedenti asilo a comunicare ogni 15 giorni la propria condizione di salute ai gestori della struttura ove sono alloggiati. I suddetti gestori sono poi tenuti a redigere una relazione con la citata cadenza quindicinale ed inviarla al Comune. Tuttavia, come dovrebbe essere  noto le informazioni relative allo stato di salute sono considerate dati sensibili ai sensi del T.U. sulla privacy, tali essendo «[…] i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale» (art. 4 1° co., lett. d) TU). L’art. 20 del TU prevede inoltre che «il trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici [sia] consentito solo se autorizzato da espressa disposizione di legge nella quale sono specificati i tipi di dati che possono essere trattati e di operazioni eseguibili e le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite». Nel caso di specie nessuna disposizione di legge potrebbe autorizzare il Comune alla raccolta e al trattamento dei dati sanitari dei richiedenti asilo residenti sul territorio, né risulta che, in deroga, sia stata richiesta al Garante della Privacy l’autorizzazione alla raccolta dei dati ai sensi del comma 3° dello stesso articolo.

A ciò si aggiunga che il trattamento dei dati sensibili deve essere effettuato «solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante, nell’osservanza dei presupposti e dei limiti stabiliti dal presente codice, nonché dalla legge e dai regolamenti» (art. 26, 1° co., TU), inoltre che «i dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi» (art. 26, 5° co., TU) e per finire che «i dati sensibili e giudiziari sono raccolti, di regola, presso l’interessato» (art. 22, 4° co., TU). Nella specie, le ordinanze non prevedono alcuna delle cautele e limitazioni indicate dalle citate norme ponendosi in aperta violazione delle garanzie ivi prescritte.

Ancora vi è da rammentare che gli obblighi sopra indicati, per essere imposti con ordinanza sindacale, necessiterebbero altresì  della sussistenza dei presupposti dell’urgenza ed indifferibilità, condizioni che, nel caso di specie, sono assenti tanto che nei vari provvedimenti si riscontra solo una generica motivazione rintracciabile nella necessità di salvaguardare la pubblica incolumità ed evitare possibili situazioni emergenziali. Le varie ordinanze infatti specificano che «la sistemazione logistica degli immigrati, comunque  effettuata, viene ad incidere sul numero dei soggetti residenti nel territorio comunale, comportando la necessità di specifiche iniziative amministrative comunali, possibili situazioni di disagio socio sanitario ovvero circostanze che vanno ad incidere sulla pubblica sicurezza ovvero la necessità di azioni comunali al fine di favorire l’integrazione e la socializzazione dei soggetti ospitati». Tale inciso, tuttavia, è puramente ipotetico e non è per nulla spiegato né evincibile il reale rischio e l’urgenza che motiverebbe l’ordinanza.

Come ha già chiarito la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., nn. 196/2009; 115/2011), solo situazioni straordinarie e temporanee possono legittimare l’assunzione di poteri extra ordinem da parte delle autorità locali, laddove, in mancanza di tali comprovati presupposti, non è consentita l’adozione di veri e propri atti di normazione a carattere generale (come documentato dallo stesso caso di specie, ove a titolo esemplificativo, mediante ordinanza sindacale, è stato introdotto un obbligo di informativa che condiziona la libertà economica).

L’imprescindibile necessità che, in ogni ipotesi di conferimento di poteri amministrativi, venga osservato il principio di legalità sostanziale – posto a base dello Stato di diritto – impedisce un’ipotesi di «assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, il che altrimenti produrrebbe l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (Corte cost. n. 307/2003; in senso conforme, ex plurimis, n. 32/2009 e n. 150/1982). Non è sufficiente quindi che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa.

Le ordinanze sindacali in oggetto incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e pubblica sicurezza) e per i loro destinatari (i proprietari o gestori di immobili presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare, che, pur asseritamente indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti considerati.

Tuttavia, com’è noto, la Costituzione italiana – ispirandosi ai principi fondamentali della legalità e della democraticità – richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale,  l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (Corte cost. n. 4/1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (Corte cost. n. 190/2007). Quanto esposto, pone seri dubbi relativamente alla legittimità degli obblighi di comunicazione, sia preventiva o successiva, imposti nelle ordinanze in oggetto, i quali non trovano alcun riscontro in leggi o atti aventi forza di legge dello Stato.

Si potrebbe rilevare, in via ulteriore, come la disciplina dettata nelle ordinanze violi anche  l’art. 97 della Costituzione con riferimento ai principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, proprio in ragione della mancanza di una motivazione credibile rispetto ad un provvedimento adottato in assenza pure delle condizioni che legittimano l’esercizio del potere che vi è presupposto. Le previsioni contenute nelle ordinanze determinano altresì una potenziale lesione del principio di eguaglianza, in quanto medesimi comportamenti possono essere ritenuti leciti o non leciti a seconda del territorio. Infine l’assenza di un comune e uniforme parametro legislativo impedisce di valutare la ragionevolezza dei provvedimenti adottati soprattutto rispetto alla eterogeneità delle situazioni locali.

A fronte dell’inosservanza degli obblighi indicati i sindaci hanno imposto una sanzione amministrativa variabile da 2.500 a 15.000 euro in aperta violazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 nella misura in cui tale disposizione impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie (Cons. di Stato, V, n. 3847/2013; Cons. di Stato, V, n. 1973/2013). A ciò si cumula la minaccia di procedere «alla denuncia all’autorità giudiziaria ai sensi dell’articolo 650 c.p.», reato che prevede la pena dell’arresto fino a tre mesi.

Sotto quest’ultimo profilo, la soluzione scelta nelle ordinanze non è priva di incognite laddove la giurisprudenza penale, pronunciandosi in materia di sindacato sul provvedimento amministrativo illegittimo, in relazione alla contravvenzione di cui all’art 650 c.p., ha ribadito che «in presenza di norme penali che sanzionano l’inottemperanza a un ordine della pubblica amministrazione, il giudice penale deve verificare la legittimità del provvedimento amministrativo presupposto del reato, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto quello formale, con riferimento a tutti e tre i vizi tipici che possono determinare l’illegittimità degli atti amministrativi, e cioè violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere» (Cass. pen., sez. I, n. 9157/2012). Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p. è quindi necessario accertare che il «provvedimento corrisponda effettivamente alla funzione legale tipica assegnatagli dall’ordinamento» e, in particolare, che: a) l’inosservanza riguardi un ordine specifico emanato dall’Autorità per ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, o di igiene o di giustizia; b) il provvedimento sia adottato nell’interesse della collettività. In un caso, come pare quello di specie, di un’ordinanza illegittima, perché emanata in assenza dei relativi presupposti, ne consegue che «l’illegalità dell’ordine, costituente il presupposto del reato si riflette sulla configurabilità dello stesso», escludendola in radice.

Anche alla luce di queste considerazioni, non si può che essere fortemente critici verso tali ordinanze, non solo in relazione agli aspetti formali e di legittimità dell’atto, ma anche e soprattutto in relazione all’approccio che dalle stesse traspare in ordine alla gestione del fenomeno dei richiedenti asilo.

I migranti sbarcati in Italia dall’inizio dell’anno sono oltre quarantamila. Dietro questi numeri ci sono persone, con un nome e un cognome, una famiglia, una storia di vita che li ha portati per necessità, sopravvivenza o disperazione nel nostro territorio. Di loro dovremmo occuparci di più e preoccuparci di meno. In Lombardia, ad esempio, vengono ospitati poco più di 28mila richiedenti asilo, pari allo 0.28 della popolazione. Può un numero come questo destare preoccupazione per la perdita della nostra identità o dei nostri valori, come sostengono alcuni borgomastri nostrani ?

Se tutti i Comuni avessero sin dall’inizio partecipato – ciascuno secondo le proprie possibilità e secondo le peculiarità del territorio e del tessuto sociale – nel condividere con le Prefetture, le Province ed i (pochi) Comuni già attivi, la responsabilità (certamente “scomoda” e per alcuni anche “fastidiosa”) del farsi carico dell’accoglienza di una quota dei profughi, non vi sarebbe stata alcuna emergenza e il fenomeno sarebbe stato affrontato in modo equilibrato e razionale con gli strumenti messi a disposizione dalle leggi dello Stato (SPRAR e/o accoglienza diffusa – CAS), costruendo politiche pubbliche orientate ad un obiettivo condiviso e primario: quello della coesione sociale.

Non è pertanto tollerabile che alcuni sindaci arrivino addirittura ad utilizzare strumenti coercitivi, quali le ordinanze contingibili e urgenti, imponendo ai propri cittadini obblighi gravosi quanto irrituali, se non addirittura impossibili da ottemperare. Vi è infatti, in questo frangente, un utilizzo strumentale delle ordinanze da parte di soggetti che rivestono la funzione di pubblico ufficiale, il che – nei suoi termini estremi – potrebbe configurare un’ipotesi di abuso d’ufficio concretantesi in una deliberata scelta politica collettiva volta a boicottare, attraverso l’esercizio del potere amministrativo e per fini di propaganda politica, una legittima legge dello Stato.

Per concludere, sarebbe auspicabile che al “sovversivismo della classe dirigente locale” venisse  posto un argine attraverso una immediata, chiara ed incisiva presa di posizione da parte del Governo, a mezzo dei Prefetti, i quali, nell’esercizio delle loro prerogative, potrebbero procedere all’annullamento delle ordinanze, laddove un atteggiamento passivo aprirebbe la strada – come avvenne all’epoca del decreto Maroni – all’intervento dei giudici.

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