Ma serve a qualcosa andare a votare?

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di Roberto Bin
La domanda è frequente e la risposta spesso è negativa. Le ragioni di scetticismo sono essenzialmente due, di natura molto diversa: non serve perché le decisioni che contano non le prende più l’Italia e i suoi organi politici; non serve perché intanto i politici e i partiti sono tutti eguali.

Mi sembrano entrambe delle risposte profondamente sbagliate.
La prima. È vero, la globalizzazione ha espropriato gli Stati di molti poteri: anzitutto delle possibilità di tassare i capitali, che se ne volano via, e di conseguenza la libertà di scegliere dove spendere i soldi ricavati; e poi c’è l’Unione europea, che ha assorbito tanti poteri e ci controlla i conti. Tutto vero, ma c’è un però.
Nel mondo, e tanto più in Europa, l’Italia non è priva di peso né di possibilità di scelta. Se vuole ritirare le sue truppe dall’Afghanistan lo può fare; se vuole bloccare uno dei grandi trattati commerciali che liberalizzano i mercati, lo può fare. Basta talvolta il voto del nostro parlamento o un voto contrario del rappresentante italiano a Bruxelles. Il trattato di Dublino e i conseguenti regolamenti UE, che impediscono di far transitare i “nostri” immigrati fuori dai nostri confini, li abbiamo approvati noi. Il Trattato di Maastricht, che fissa quel 3% che tanto fa indignare Salvini, anche. Il vecchio regolamento sulle quote latte e ogni altra norma europea che suscita tanta antipatia hanno richiesto il voto dei nostri rappresentanti. Tutte le scelte politiche dell’Unione europea passano anche per il consenso degli Stati membri e dei loro rappresentanti: spetta ai nostri trovare le alleanze necessarie per imporre politiche diverse.

C’è poi da aggiungere che non tutto è determinato “da fuori”. La politica dell’istruzione professionale, nodo cruciale per lo sviluppo del paese, quella dell’istruzione e della ricerca, le politiche dell’assistenza sociale e della tutela della salute, l’organizzazione della giustizia, quella della burocrazia e quella dello sviluppo urbano, le norme sui diritti dei lavoratori e quelle di tutela dei consumatori, la politica dell’ambiente e dei siti archeologici, la tutela delle città d’arte dal turismo selvaggio, il sostegno delle famiglie e la politica degli asili nido… l’elenco è infinito, e sono tutte cose che dipendono dalle scelte politiche che fanno i nostri eletti, in parlamento, nei consigli comunali e nelle assemblee regionali.

E qui si attacca l’altro discorso, quello per cui sono tutti eguali e quindi che vinca l’uno o l’altro non cambierebbe nulla. Sono frottole. Siamo sicuri che il fatto che a governare gli effetti dell’entrata nell’euro sia stato il governo Berlusconi, convinto che il liberalismo non debba soffrire di limiti e controlli (vi ricordate il mitico slogan della “casa delle libertà?”), non abbia segnato il modo selvaggio e incontrollato con cui si è gestito il cambio dei prezzi? E che la riforma Gasparri della televisione non abbia pesantemente segnato le opzioni tecnologiche del Paese (siamo stati condannati dalla Corte europea per il clamoroso favoritismo che ne è derivato a Mediaset)? E che la “sensibilità etica” di un pezzo del nostro parlamento non abbia impedito leggi migliori nel campo dei diritti? E che la politica energetica e ambientale non sarebbe diversa se avessimo una maggioranza politica più sensibile a questi temi? E che la “delocalizzazione” delle imprese non potrebbe essere arginata se usassimo armi di controllo (e anche di ricatto) più affilate? E perché in Francia si usano e in Italia no?

No, questa per cui non merita usare l’unica arma che abbiamo a disposizione è un’idea inaccettabile. Votare è indispensabile. Con il voto promuoviamo gente capace o incapace, dipende da noi. Anche se non ci piace nessuno dei candidati che si contendono il seggio uninominale, e magari non ci piace nessuno dei 2, 3 o 4 candidati (perché tanti saranno) proposti dalle varie liste nel plurinominale – il che francamente può succedere, purtroppo – con il nostro voto determiniamo quale sarà lo schieramento che, magari in coalizione, guiderà il Paese. È indifferente quale sarà?

Pochi anni fa un mio più giovane collega, mentre mangiavamo un panino al bar dell’università, mi disse che non avrebbe votato alle imminenti elezioni politiche, perché non “si sentiva rappresentato” da nessuno degli schieramenti in lizza. Gli rovesciai addosso un cumulo di parolacce, e dentro di me continuo a insultarlo. Grazie alla vittoria elettorale del suo schieramento, il ministro Gelmini ci regalò una riforma che ha messo in ginocchio l’università e distrutto le prospettive di carriera dei più giovani. Chissà se si ricorda questo suo deprimente discorso ora che ha trovato lavoro in un’università sperduta della tundra svedese?

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