Tre cose che so sulla libertà di stampa e una che non so

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di Alessandro Morelli 

Vicende a tutti note, che nelle ultime settimane hanno interessato emittenti televisive e giornali, mi hanno fatto capire che alcune nozioni e idee sulla libertà di stampa, che ritenevo pacifiche o comunque ampiamente conosciute e accettate, in realtà non lo sono affatto. Ho sentito, dunque, l’esigenza di illustrare in breve tre cose che so sulla libertà di stampa e di chiedere lumi a chi fosse in grado di darmene su un aspetto della disciplina riguardante l’attività giornalistica che non riesco a comprendere.  

La prima cosa che so è che, fatto salvo quanto consentito dal diritto di rettifica, non posso imporre a un giornale di pubblicare un mio scritto. La Corte costituzionale ha chiarito più volte che l’articolo 21 della nostra Costituzione garantisce il libero uso di tutti i mezzi di diffusione del proprio pensiero (e, tra questi, innanzitutto la stampa) ma non prevede la libertà di usare a nostro piacimento qualsiasi mezzo. Posso legittimamente rivendicare il diritto a manifestare il mio pensiero con i mezzi di cui ho la disponibilità giuridica. Questo vale, in base a un’interpretazione evolutiva del dettato costituzionale, anche per le testate online, assimilate alla stampa cartacea. Cosa diversa è la garanzia del pluralismo dell’informazione, esigenza costituzionalmente rilevante: questa impone al legislatore di predisporre una disciplina che consenta l’uso dei mezzi di espressione del pensiero al maggior numero di persone, con conseguente vantaggio per la libera circolazione di idee e notizie.

La seconda cosa che so è che la Costituzione riconosce la libertà di stampa senza funzionalizzarla a nessun altro principio o diritto. Siamo liberi di esprimere le nostre idee non se e nella misura in cui siano utili allo sviluppo della democrazia o al diritto a essere informati degli altri. Sempre la Corte costituzionale ha ribadito che la libertà prevista dall’articolo 21 è la “pietra angolare” e il “cardine” del sistema democratico, ma questo non significa che il suo esercizio debba servire alla causa democratica o a qualunque altro valore o interesse superiore. Perché possa essere davvero utile per la democrazia, la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero non deve essere orientata verso alcun fine ulteriore. Anche la libertà d’informazione dovrebbe essere intesa come un diritto individuale e non funzionale. Ciò ovviamente non significa che la libertà di stampa sia assoluta e illimitata: non esistono diritti “tiranni” in Costituzione. Per questo la stampa incontra il limite del “buon costume” (un concetto-valvola che cambia con i tempi, anche di parecchio) e può subire restrizioni, in qualche caso, dettate da concrete esigenze di tutela di altri diritti e principi costituzionali.

La terza cosa che so è che la Costituzione vieta le autorizzazioni e le censure: non sono ammessi impedimenti da parte delle autorità pubbliche prima che un prodotto editoriale sia completato o diffuso. Per censura deve, dunque, intendersi il controllo da parte dei pubblici poteri prima della divulgazione di uno scritto. Non va confusa né con il sequestro degli stampati (la Costituzione lo ammette solo con atto motivato dell’autorità giudiziaria nei casi previsti dalla legge), né con la stessa libertà dei direttori e delle redazioni dei giornali di scegliere cosa pubblicare. Che non è altro se non il principale contenuto della stessa libertà di stampa.

Pensavo che si trattasse di cose pacifiche, persino banali. Ho scoperto che non lo sono.

C’è invece almeno una cosa che non so della libertà di stampa: un aspetto del nostro sistema dell’informazione che, invece, sembra ormai incontestabile. Non capisco come possa conciliarsi l’esigenza di assicurare al giornalista le garanzie previste dall’articolo 21 della Costituzione con l’esistenza di un ordine professionale ad appartenenza necessaria e di un albo a iscrizione obbligatoria. So bene che finora la giurisprudenza ha fatto salve entrambe le cose (l’Ordine e l’iscrizione obbligatoria). Non mi convince però nessuna delle tesi sostenute per giustificare l’esistenza di questo sistema, a cominciare dall’argomento promosso da una parte della dottrina (ma non dalla Corte costituzionale) secondo cui il problema non si porrebbe perché la professione giornalistica sarebbe da considerarsi come attività imprenditoriale, dunque sottratta alla sfera di applicazione dell’articolo 21 e riconducibile a quella dell’articolo 41 della Costituzione. Se così fosse, dovremmo rassegnarci all’idea che l’attività giornalistica non è libera, non potendosi svolgere “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Né mi persuade la tesi secondo cui l’ordine dei giornalisti servirebbe a garantire la “dignità professionale del giornalista” contro il potere economico degli editori: l’Ordine non dispone di alcun potere di vigilanza nei confronti degli editori stessi e la tutela dei diritti economici dei giornalisti è prerogativa del sindacato, del quale l’Ordine rischia di risultare un doppione. Illegittimo, peraltro, perché ad appartenenza obbligatoria. Se l’attività giornalistica è una forma qualificata di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, la formazione dei giornalisti non richiede necessariamente l’appartenenza a un ordine. Corsi universitari, scuole specializzate abilitate a rilasciare titoli e associazioni volontarie possono servire benissimo allo scopo senza imporre vincoli indebiti. Altre giustificazioni date all’esistenza di un ordine ad appartenenza obbligatoria, come la tutela della deontologia o l’esigenza di vigilare sul diritto all’informazione della collettività, finiscono con il giustificare restrizioni illegittime a una libertà dal cui effettivo riconoscimento dipende la buona salute della nostra democrazia.

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