Contenzioso climatico, illecito civile, termodinamica

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di Michele Carducci

Il Governo francese è stato condannato dal Tribunale Amministrativo di Parigi per inadempimento climatico e risarcimento danni in corso, non avendo adottato misure idonee a ridurre effettivamente le emissioni di gas serra e contrastare  riscaldamento globale e cambiamento climatico, in conformità con l‘Accordo di Parigi del 2015 e la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992. La sentenza è del 3 febbraio 2021 e ha accolto i ricorsi numeri 1904967, 1904968, 1904972, 1904976/4-1, promossi da diverse associazioni e organizzazioni non governative, impegnate nel dibattito pubblico francese sulle politiche climatiche.

La decisione è stata immediatamente salutata come ennesima conferma della funzione “strategica” del contenzioso climatico contro la persistente “cattura” del regolatore statale, condizionato e schiacciato dai giganteschi interessi ruotanti intorno all’energia fossile, causa fondativa della concentrazione crescente di carbonio nell’atmosfera.

 Del resto, persino l’UNEP ha ufficialmente legittimato la “via giudiziale” alle politiche climatiche, per accelerare le risposte alla drammatica emergenza climatica.

In effetti, anche la sentenza francese conferma una linea costante di questa “via giudiziale”: il richiamo alla scienza come vera e propria “riserva di competenza”, sottratta alla discrezionalità politica, e “limite” all’autonomia privata. Questo approccio ermeneutico e procedimentale, reso in Italia con la formula della “riserva di scienza“, pone lo Stato e il privato di fronte a una contraddizione intrinseca: quella cioè di sostenere di agire in modo trasparente e informato, negando però le risultanze che Istituzioni nazionali e internazionali, (di cui è parte diretta o indiretta il medesimo Stato) ed evidenze offerte dalla ricerca scientifica (retoricamente richiamate anche dai privati nella pratica del c.d. greenwashing, offrono sul piano delle azioni e delle scelte necessarie da compiere (come, tra le altre, l’abbandono appunto del fossile per non sforare il bilancio di carbonio del pianeta).

In Italia, un ordito simile, riferito appunto all’utilizzo dell’energia fossile sulla base di informazioni trasparenti e scientificamente verificabili nella prospettiva del contrasto all’emergenza climatica, si è perseguito soltanto in occasione della condanna di ENI da parte dell’Antitrust, per pubblicità ingannevole sul diesel.

Tuttavia, nel panorama comparato, la sentenza francese presenta alcune novità, che è bene rimarcare.

La prima riguarda la collocazione delle fonti internazionali sul clima nell’alveo del diritto dell’UE, per la ovvia constatazione, trascurata od omessa in altre sedi contenziose europee, che l’Unione europea ha aderito sia alla Convenzione quadro dell’ONU del 1992 che all’Accordo di Parigi del 2015, sicché il sistema di obblighi e vincoli, contenuti in quegli strumenti, non riguarda affatto i rapporti esterni fra Stati ma assurge a primauté ed effetto utile, interni a ciascuno Stato della UE.

La seconda investe la qualificazione dell’illecito “climatico” secondo le leggi della termodinamica.

Riscaldamento globale e cambiamento climatico sono fenomeni termodinamici. Di conseguenza, la loro conoscenza e comprensione non può prescindere dalla fisica e dalle acquisizioni che la fisica consegna alla rappresentazione di processi planetari, descritta sulla base di modelli regolativi e stocastici che mettono fortemente in discussione le finzioni giuridiche su tempo, causalità, danno.

Basti pensare proprio al concetto di danno. L’IPCC, il Panel Intergovernativo dell’ONU sui cambiamenti climatici, nel suo Quinto Rapporto sui cambiamenti climatici (ARV), inquadra i danni all’interno della freccia termodinamica del tempo, così distinguendo tra “loss” e “damage“. Con la prima espressione, sono rubricati i processi ormai irreversibili di perdita di condizioni di equilibrio e stabilità del sistema climatico locale o planetario (per es. l’aumento della temperatura terrestre, la concentrazione atmosferica di CO2, la definitiva estinzione dei presidi ecosistemici di salubrità ambientale come i bacini di carbonio, la cintura tropicale delle piogge, i ghiacciai ecc…). Con la seconda formula, sono identificati gli “shock” temporanei, circoscrivibili nello spazio (per es. una inondazione o un evento meteorologico estremo), ancorché proiettati, nella loro ripetizione, dal singolo giorno fino ai mesi o agli anni. Entrambi, quindi, identificano impatti che non possono più essere evitati attraverso sforzi di mitigazione e adattamento. Sono ormai danni esistenti, persistenti, ripetitivi e persino peggiorativi, simili a un tumore. Non a caso, un’efficace proposta (C. Huggel et al., Attribution of Irreversible Loss to Anthropogenic Climate Change, in EGU General Assembly Conference Abstracts, 2016, 8557) li scansiona, dentro la freccia termodinamica del tempo, in “sudden-onset events” e “slow-onset processes“, che, amplificando lo “stress” ormai irreversibile del sistema climatico, moltiplicano frequenza, intensità e durata degli “shock” termici, anch’essi irreversibili.

Stress” e “shock” non sono categorie giuridiche. Di conseguenza, non è scontata la loro collocazione all’interno dei diritti statali. Una delle ragioni per cui Convenzione e Trattati sul clima non definiscono legalmente i lemmi “loss” e “damage“, affidandone agli Stati la tematizzazione soprattutto sul fronte delle relazioni di cooperazione, finanziamento e risarcimento, è anche questa.

Ma “stress” e “shock” sono due facce della stessa medaglia della realtà termodinamica, esattamente come un tumore; sicché, con quest’unica medaglia, qualsiasi ordinamento giuridico deve fare i conti.

In questo quadro, l’illecito nella lotta al riscaldamento globale e al cambiamento climatico appare simile a quello di omessa o insufficiente diagnosi di una patologia tumorale, rispetto alla quale le rigide demarcazioni giuridiche, in merito a causalità, danno, evento, conseguenza, devono piegarsi, per non alimentare inverosimili finzioni, attraverso le acquisizioni scientifiche, quindi cognitive, sulla dinamica di “stress” e “shock” del processo cancerogeno.

Nel caso della sentenza francese, l’inquadramento di questo illecito è stato facilitato dal diritto civile di quel paese e dalla sua tradizione sulle fonti della responsabilità civile. La Francia, infatti, conosce il risarcimento del c.d. “pregiudizio ecologico puro“.  Riconosciuto nel marzo 2010 da una sentenza della Corte d’Appello di Parigi, originariamente ricondotto alle previsioni del Code Civil degli artt. 714, secondo cui «Esistono cose che non appartengono a nessuno e il cui uso è comune a tutti», e 1242, sulla responsabilità per danno da cosa custodita, è stato poi esplicitamente inserito nel Code con la loi n° 2016-1087.

Il concetto di “pregiudizio” è declinato proprio sulla natura “ecologica” del danno, consistente non in una artificiosa scansione deterministica di “eventi” e “conseguenze”, bensì in una violazione umana di un processo ecosistemico o, meglio, in un’infrazione delle “funzioni degli ecosistemi” che compromette il loro naturale funzionamento e i “benefici collettivi” collegati. Si tratta, in una parola, di uno “stress” con i propri “shock“, esattamente come per il riscaldamento globale e il cambiamento climatico. Del resto, il clima non è semplicemente “una” delle funzioni degli ecosistemi, bensì “la” funzione per eccellenza di tutti gli ecosistemi, in quanto da esso dipendono “stress” e “shock” di qualsiasi forma di vita, dunque i “benefici collettivi”.

In tale prospettiva, il merito della sentenza francese non è stato semplicemente “politico”, da ennesima Climate Change Litigation Strategy che contrasta la “cattura del regolatore”, ma epistemico: aver reso evidente la rilevanza della termodinamica per il diritto e per lo svecchiamento delle sue categorie, ancora comodamente appiattite su un determinismo meccanicistico e newtoniano, che nella realtà non esiste.

Piaccia o meno, la realtà termodinamica del riscaldamento globale e del cambiamento climatico è una “preponderanza dell’evidenza“, per utilizzare il lessico della Corte di cassazione civile italiana (Corte cass. sez. III n. 8461/2019), insubordinabile a qualsiasi pacifica dogmatica, per rispetto della vita e delle scienze della vita.

Come insegnava Giuseppe Capograssi, l’esperienza giuridica non può battere la strada opposta alla dignità della vita, in nome della dogmatica; e quella climatica è una questione termodinamica di dignità della vita, qualsiasi vita presente e futura.

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