Quali sono i limiti dell’interpretazione “costituzionalmente orientata” del giudice ordinario? (riflessioni a margine dell’apertura della Cassazione alle adozioni delle coppie “omoaffettive”)

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di Salvatore Curreri

Con sentenza n. 9006/2021, depositata lo scorso 31 marzo, le Sezioni unite civili della Cassazione hanno sancito che una coppia omosessuale maschile può aver trascritta nel nostro paese l’adozione piena (o legittimante) del figlio ottenuta all’estero, purché non abbia fatto ricorso alla maternità surrogata, vietata nel nostro ordinamento.

Benché accolta con generale favore, quale ulteriore passo verso la piena equiparazione dei diritti di tali coppie a quelle eterosessuali unite in matrimonio, tale sentenza merita invece più d’una considerazione critica, sia di merito che di contesto. A mio modesto parere, infatti, essa costituisce un esempio paradigmatico di come i giudici intendano il proprio potere interpretativo “costituzionalmente orientato” in modo così ampio e profondo da poter financo sovvertire il chiaro significato letterale della legge.

Com’è noto, infatti, nel nostro ordinamento “l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni” (art. 6.1 legge n. 184/1983). Tale disposizione, dopo non poche polemiche, è stata ribadita in occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso (n. 76/2016). Secondo, infatti, l’art. 1.20 ai componenti di tale unione si applicano le stesse disposizioni riferite al matrimonio (c.d. clausola di salvaguardia), salvo talune eccezioni, tra le quali il divieto di poter ricorrere alla procreazione medicalmente assistita e, per l’appunto, all’adozione, fermo restando “quanto previsto e consentito (…) dalle norme vigenti”.

Per questo motivo, i figli che le coppie omosessuali hanno avuto e trascritto all’estero ricorrendo alla (qui vietata) maternità surrogata (se uomini) o (qui ammessa) fecondazione eterologa (se donne), possono essere riconosciuti e trascritti come tali nel nostro ordinamento solo dal genitore “biologico”, mentre il genitore c.d. intenzionale può solo ricorrere all’adozione in casi particolari (c.d. adozione co-parentale o stepchild adoption) (art. 44.1.d) legge n. 184/1983).

Una soluzione che la Corte costituzionale, nelle recenti sentenze gemelle n. 32 e 33, pur dichiarando inammissibili le relative questioni di legittimità costituzionale, non ha mancato di censurare, ritenendola inadeguata ai fini del superiore interesse del minore ad avere un legame giuridico completo anche con il genitore intenzionale. Secondo i giudici costituzionali, infatti, l’adozione co-parentale “costituisce una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali” perché “non attribuisce la genitorialità dell’adottante” (33/2021, 5.8). Essa, infatti, non offre piena tutela all’interesse del bambino ad “ottenere un riconoscimento anche giuridico dei legami che, nella realtà fattuale, già lo uniscono ad entrambi i componenti della coppia” che hanno voluto la sua nascita e si sono presi quotidianamente cura di lui, esercitando in tal modo di fatto la responsabilità genitoriale, indipendentemente che si tratti di coppie etero o omosessuali, dato che “l’orientamento sessuale non incide di per sé sull’idoneità ad assumere ed esercitare la responsabilità genitoriale” (33/2021, 5.4). Infine non è chiaro se l’adozione in casi particolari crei legami tra l’adottato ed i parenti del genitore intenzionale adottante (33/2021, 5.8).

Pur ritenendo per questi motivi l’attuale quadro normativo inadeguato, i giudici costituzionali “di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica” hanno avvertito comunque l’esigenza di “arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore” (33/2021, 5.9). Spetta infatti a quest’ultimo, bilanciando i diversi diritti e principi in gioco, individuare forme più idonee di tutela “attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino” (33/2021, 5.7), dando così migliore tutela ai suoi diritti al mantenimento, alla cura, all’educazione, all’istruzione, alla successione e alla continuità dei rapporti effettivi con entrambi i genitori che hanno condiviso il progetto di maternità (32/2021, 2.4.1.3).

Del resto anche la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto che i singoli Stati hanno ampio margine di apprezzamento nell’introdurre limiti di accesso alla filiazione, potendo riservare l’adozione alle sole coppie unite in matrimonio (C. EDU 15.3.2012 Gas e Dubois c. Francia) oppure estenderla anche alle unioni civili, a patto di non fare differenze tra coppie omo ed eterosessuali (C. EDU, Grande Camera, 19.2.2013, X ed altri c. Austria). Analogamente, gli Stati possono legittimamente vietare la c.d. maternità surrogata nonché la trascrizione dei figli che le coppie omosessuali hanno avuto all’estero, limitandosi a consentire al genitore c.d. intenzionale la sola loro possibile adozione (Corte EDU, Grande Camera, parere del 9 aprile 2019).

Anche per la Corte di giustizia europea il diritto di famiglia rientra nell’identità nazionale di uno Stato, come peraltro recente riaffermato dall’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea nelle sue conclusioni sul caso Kokott (C-490/20). Poiché, infatti, il diritto dell’UE non prevede norme sulla filiazione, gli Stati membri che prevedono la famiglia eterosessuale possono rifiutarsi di riconoscere il figlio che una coppia lesbica aveva avuto e registrato all’estero.

Insomma, il contesto legislativo e giurisprudenziale è chiaro: i figli avuti o adottati all’estero dalle coppie omosessuali possono non essere riconosciuti e trascritti come tali da entrambi i loro componenti, potendosi in alternativa ricorrere – per quanto riguarda il c.d. genitore intenzionale – a soluzioni (anche sotto il profilo processuale) che tengano comunque conto del superiore interesse del minore.

Evidentemente però non così chiaro tale contesto è parso ai giudici della Cassazione i quali, anziché – come pur avrebbero potuto e dovuto – sollevare questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che, come detto, vietano l’adozione alle coppie omosessuali, le hanno di fatto disapplicate. Seguendo un abile percorso argomentativo, teso a sminuire la portata del chiaro dettato legislativo, i giudici hanno ritenuto che i limiti oggi previsti per l’adozione – e cioè il fatto che la coppia adottante debba essere eterosessuale e unita in matrimonio – non assurgono a dignità tale da poter essere considerati principi di ordine pubblico internazionale, come tali in grado di validamente opporsi al riconoscimento di provvedimenti esteri di adozione piena di un figlio minore da parte delle coppie non a caso definite “omoaffettive” anziché omosessuali.

Per il giudice ordinario, infatti, tali limiti, infatti, sono da considerare recessivi se comparati con il superiore interesse del minore alla sua identità e ad alla sua stabilità affettiva, relazione e familiare. Anzi, essi costituirebbero espressione di un’ingiustificata disparità di trattamento perché limiterebbero la genitorialità in base esclusivamente all’orientamento sessuale della coppia richiedente. Ciò tanto più in considerazione della tendenza legislativa ad equiparare le unioni tra persone dello stesso sesso a quelle matrimoniali, come luoghi in cui si sviluppa la personalità dei soggetti coinvolti (art. 2 Cost.) anche in ordine alla loro aspirazione alla genitorialità.

In questo quadro la scelta della legislazione di non consentire alle unioni omosessuali la filiazione sia adottiva che per fecondazione assistita degrada, agli occhi della Cassazione, a mera “opzione legittima ma non universalmente condivisa”, in contrasto con i superiori principi costituzionali e convenzionali e per questo non in grado di assurgere a quel livello di “principi fondanti dell’ordinamento” che ovviamente è lo stesso giudice a fissare.

Da qui la conclusione, così massimata: “non contrasta con i principi di ordine pubblico internazionale il riconoscimento degli effetti di un provvedimento giurisdizionale straniero di adozione di minore da parte di coppia omoaffettiva maschile che attribuisca lo status genitoriale secondo il modello dell’adozione piena o legittimante, non costituendo elemento ostativo il fatto che il nucleo familiare del figlio minore adottivo sia omogenitoriale ove sia esclusa la preesistenza di un accordo di surrogazione di maternità a fondamento della filiazione” (19.4).

Ora, si può essere d’accordo o meno sull’apertura delle adozioni alle coppie omosessuali. Anzi, con tutta probabilità (e chi scrive n’è profondamente convinto), l’affermazione, condivisa dalla giurisprudenza prima ordinaria e poi costituzionale, per cui “l’orientamento sessuale non incide di per sé sull’idoneità ad assumere ed esercitare la responsabilità genitoriale” (C. cost., 33/2021) spinge inesorabilmente nella direzione del superamento dell’attuale divieto. Ma – ed è questo il punto – tali scelte, quando non costituzionalmente obbligate, devono essere compiute dal legislatore o dal giudice?

Se un giudice ordinario, fosse anche la Cassazione, ritiene il proprio potere interpretativo così ampio e profondo da poter, in nome di un asserito contrasto con il quadro normativo costituzionale, sovranazionale e internazionale, sovvertire il chiaro significato letterale della legge, vuol dire che il potere giudiziario si ritiene ormai investito di un’autorità morale e politica tale da potersi sostituire al potere legislativo quando non ne condivide le scelte. Il che mi pare scarsamente conforme alla Costituzione, secondo cui i giudici sono – e quindi devono essere – soggetti alla legge (art. 101.2). Ciò tanto più in materie così delicate e complesse, come quelle in materia di rapporti affettivi e familiari come anche di inizio e fine vita, dove la complessità e delicatezza degli interessi in gioco esige un bilanciamento che solo il legislatore, anziché il giudice, può compiere, anche tenendo conto (ma non per questo dovendo sempre passivamente recepire) il mutato sentire sociale.

Non c’è dubbio che l’inerzia del legislatore in materia di diritti fondamentali, al quale spesso invano la Corte costituzionale ha fatto appello, è motivo principale di questo interventismo giudiziario. Non è affatto un caso che le minoranze, che un tempo ingaggiavano lotte sul piano politico-parlamentare per l’affermazione legislativa dei loro diritti, oggi preferiscano la strada giudiziaria per ottenere dai giudici quella attenzione che non riescono ad avere dalle forze politiche. E le vicende passate, dal caso Cappato fino alle attuali vicende relative al disegno di legge Zan, con le pretestuose e infondate motivazioni giuridiche opposte alla sua approvazione, ne sono purtroppo conferma.

Ma ciò non giustifica affatto questa continua opera di supplenza legislativa dei giudici, basata su interpretazioni creative che fanno volutamente leva su forzate ricostruzioni del contesto normativo rispetto al quale la normativa interna sarebbe in contrasto, tanto più quando si tratti di giudici ordinari che, incuranti della prudenza della Corte costituzionale, vi si intendano sostituire, nonostante essa sia l’unica che, anche in caso di violazione delle carte internazionali e sovranazionali dei diritti fondamentali, debba intervenire e dare loro tutela a beneficio di tutti, assicurando ad essi uniformità e certezza (C. cost. 269/2017).

Nell’affrontare temi così delicati, è comprensibile la tentazione di ritenere che siano le conclusioni cui si vuole pervenire a legittimare gli argomenti a loro sostegno. Nel diritto però dovrebbe avvenire esattamente il contrario.

 

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