Cosa nasconde la suggestione del ritorno di Draghi

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di Antonio D’Andrea

Trovo stucchevole voler evocare, dopo il voto politico, la riedizione del Governo Draghi sostenuto da una maggioranza di unità nazionale con il coinvolgimento, a differenza di quanto accaduto nella scadente legislatura, del partito della Meloni, sul presupposto che si possa considerare partito di maggioranza relativa (estromettere in tal caso Fratelli d’Italia non sarebbe in sintonia con il dichiarato intento “unitario”). Si persegue, in sostanza, una sterilizzazione del futuro voto politico, quasi davvero che le prossime elezioni alla fine non contino nulla o molto poco e che, perciò, occorre ricorrere nuovamente ad una guida tecnica – come è noto autorevole e accreditata fuori dai confini nazionali – perché questa è l’unica strada che consente al Paese di fronteggiare le crisi e le emergenze presenti e future stante il perdurare del tragico conflitto bellico e di tutto ciò che ruota intorno a esso nella parte Nord-orientale dell’Europa.

Il perseguimento di questo intento è ovviamente privilegiato da parte di chi, sapendo di non poter realisticamente aspirare a governare direttamente il Paese, avendo in primo luogo il problema di superare la soglia di sbarramento, prova da subito a giocare di sponda sperando di lucrare su un’eventuale necessità di aggregare i voti dei propri parlamentari (che si spera arrivino) a quelli delle più consistenti forze politiche nell’ipotesi che questi fossero insufficienti per raggiungere la richiesta maggioranza in entrambe le Camere.

C’è poco da stupirsi per questa strategia elettorale che denuncia un’evidente duttilità sul fronte delle alleanze di Governo post-elettorali e una volontà di condizionare, in qualche modo, struttura più ancora che programmi del nuovo Governo. La scommessa si basa sul fatto che nessuna delle maggiori coalizioni, sempre ammesso che queste reggano al loro interno una volta conosciuti gli esiti elettorali, possa “governare in solitudine”. Vecchia e nota storia delle coalizioni di governo sperimentate nel nostro Paese e che hanno spesso visto, anche nel tempo della Prima Repubblica un sovradimensionamento di piccole formazioni politiche (ma allora non c’erano, sostanzialmente, clausole di sbarramento). Stupisce, tuttavia, che ci si spinga sino ad indicare il nome del futuro Presidente del Consiglio nella persona di Mario Draghi. Intanto perché Draghi, a differenza di altri Presidenti del Consiglio dimissionari, “prestati” alla politica per fronteggiare particolari condizioni di crisi delle nostre istituzioni rappresentative (la prima volta fu con Ciampi nella tormentata e brevissima XI Legislatura, alla vigilia del superamento per via referendaria del sistema elettorale proporzionale, dopo la crisi del Governo Amato e l’elezione, quale successore di Francesco Cossiga, di Scalfaro alla Presidenza della Repubblica; poi abbiamo avuto, come è noto, Dini nella legislatura successiva e, infine, Monti nella XVI Legislatura, dopo la crisi del IV Governo Berlusconi che travolse il centrodestra) non ha inteso dare un seguito, proprio in questa tornata elettorale, alla sua esperienza politica interrotta, con le sue dimissioni volontarie dello scorso luglio, dopo il disimpegno del Movimento V Stelle, a quel punto guidato da Conte. Cosa che, viceversa, non fece Dini – il suo partito si chiamava Rinnovamento Italiano e partecipò al voto nel 1996 – e successivamente lo stesso Monti con Scelta Civica presente al voto politico del 2013. Peraltro, non appare un dettaglio la sua mancata elezione – ancorché gradita (si suppone) – alla carica di Capo dello Stato, a differenza di quel che è accaduto con Ciampi eletto nel maggio 1999 e che, in quel ruolo, ha accompagnato le sorti  della XIII, XIV e XV Legislatura: questo elemento pare davvero aver incrinato in modo irreversibile la determinazione di Mario Draghi nel ricoprire incarichi istituzionali di chiara impostazione politica, come dimostra la sua insofferenza nei confronti della prosecuzione del suo ruolo di Presidente del Consiglio una volta determinatasi la rottura dell’ampia maggioranza che sosteneva il suo Governo e che aveva, in sostanza, rieletto Mattarella al Quirinale.

In realtà, evocare continuamente in campagna elettorale la personalità di Draghi e la pregressa agenda del suo Governo, per cercare di convogliare a proprio vantaggio il voto di una certa porzione di elettorato, serve davvero per nascondere la frustrazione di chi non è in grado di ottenere per sé alcuna significativa leadership e ricerca un “ingaggio” per recitare una piccola parte nella commedia politica nazionale, utilizzando quella che pare essere ancora una buona referenza per i nuovi eventuali partner.

Tutti sanno che quel che potrà accadere dopo il voto è estremamente aleatorio, tanto più nel medio periodo e comunque dipenderà, nell’immediato, da chi “governa” ora le liste e domani proverà a “governare” gli eletti, pochi o tanti che saranno; tutti sanno che gli elettori vengono sollecitati, in realtà, a votare anzitutto per personalità evocative di qualcosa di istantaneo che può, o si spera possa, piacere più di altro: la legge, del resto, impone alle liste in competizione di fornire il nome di un “capo”. Un capo fittizio o a scadenza breve, come si è dimostrato dopo il voto del 2018 nel quale quel capo (Di Maio) pur “vincendo” con il suo partito, con oltre il 30% dei consensi, non è stato in grado di guidare il Governo che includeva il Movimento 5 Stelle (e, in effetti, dovette ricorrere a Conte al fine di poter concludere il “contratto di governo” con La Lega di Salvini). E allora che quella previsione normativa sia, in un certo senso, “farlocca” lo dimostra proprio chi sostiene che a guidare l’Esecutivo debba essere chi non è a capo di alcuna forza politica – appunto Mario Draghi – e che avrebbe potuto, se avesse voluto, continuare a governare il Paese consentendo la naturale scadenza della XVIII Legislatura. Sarebbe del resto illogico che alla guida del nuovo Governo possa essere nuovamente sollecitato dal Presidente Mattarella una riconosciuta personalità a cui, sulla base di una precisa volontà politica, è stato impedito di assumere un ruolo ritenuto per sé più consono e differente rispetto a quello già ricoperto e al quale ha già volontariamente rinunciato.

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