La riforma dell’art. 41 Cost. davanti al Consiglio di Stato: scelte pubbliche, dati scientifici e transizione ecologica

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di Fabrizio Motta

 Una recentissima Sentenza del Consiglio di Stato (la VI sez., n. 8167 del settembre 2022), offre interessanti spunti di riflessione sull’impatto che il riformato art. 41 della Costituzione può produrre sul controllo giudiziale delle scelte pubbliche.

La questione di merito riguarda il conflitto tra tutela del patrimonio paesaggistico e culturale e interesse pubblico alla indifferibilità della transizione ecologica.

I punti significativi dell’argomentazione in diritto, tuttavia, investono questioni di teoria appunto delle scelte pubbliche, che i Giudici di Palazzo Spada hanno voluto rimarcare in una prospettiva non formale né formalistica, ma di razionalità sostanziale (quasi sul solco della tradizione angloamericana della Public Choice Theory), impostando il loro ragionamento sulla seguente scansione:

– la doppia qualificazione della discrezionalità in base alla funzione ricoperta dalla conoscenza scientifica nel concreto esercizio della scelta pubblica;

– la conseguente doppia configurazione del giudice nel suo ruolo non solo “sussuntivo” della scelta pubblica dentro la norma cui conformarsi, ma anche “valutativo” dell’adeguatezza tecnico-scientifica di quella scelta rispetto agli obiettivi prefissati (dal decisore o dalla norma attributiva del potere);

– il perseguimento della tutela del principio democratico attraverso il riconoscimento di questa doppia dimensione della discrezionalità e del controllo giudiziale;

– la prevalenza del precetto costituzionale del giusto processo sul postulato dell’insindacabilità delle scelte pubbliche;

– l’onere della prova scientifica come adempimento necessario per mettere in discussione l’adeguatezza e non solo la conformità delle scelte pubbliche;

– l’indefettibilità del principio europeo di integrazione ambientale, di cui all’art. 11 TFUE, ai fini della decisione giudiziale sulla scelta pubblica;

– il superamento del bilanciamento libero dopo la riforma costituzionale dell’art. 41 Cost., ai fini della tutela sistemica dei diritti e degli interessi in gioco;
– l’indifferibilità della transizione ecologica come parametro vincolante.

Si tratta di scansioni che permettono di chiarire una serie di importanti categorie concettuali, oggi più che mai necessarie di fronte agli inediti scenari dell’emergenza climatica e ambientale, di cui, però, si sono registrati talvolta usi promiscui o camaleontici da parte della dottrina come della giurisprudenza.

È noto, infatti, che il tema del bilanciamento nelle scelte ambientali e quello della natura del sindacato giudiziale in materia, se di conformità o anche di adeguatezza, hanno arrovellato le argomentazioni degli ultimi anni, soprattutto dopo la famosa sentenza della Corte costituzionale sul “caso ex-Ilva” (la n. 85/2013), che sembrava aver cementificato irreversibilmente un pilastro identificativo della nostra democrazia pluralista: l’assenza di un’assiologia compositiva dei diritti e la connessa impossibilità di attribuire ad alcuni di essi – in primis, salute e ambiente salubre – natura prioritaria e assoluta (addirittura “tirannica”, nelle stigmatizzanti parole della Consulta) rispetto agli altri (cfr., tra i tanti, le due riepilogative impostazioni di L. Geninatti Satè, La tutela dell’ambiente come strumento necessario per la protezione dei diritti individuali e il sindacato giurisdizionale sulla sua inadeguatezza, e D. Servetti, Il fattore tempo nel bilanciamento tra lavoro e salute. Alcune note alla nuova sentenza della Corte costituzionale sull’Ilva di Taranto).

Il Consiglio di Stato, nella decisione in esame, non nega l’importanza di quel pilastro, ma prende atto del suo ridimensionamento operato sul fronte delle scelte ambientali, dato che il riformato art. 41 Cost., «nell’accostare dialetticamente la tutela dell’ambiente con il valore dell’iniziativa economica privata, segna il superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva».

Questa presa d’atto segue a una serie di puntualizzazioni, elaborate lungo tre linee ricostruttive della tenuta del sistema democratico nelle scelte di transizione ecologica:

– quella della differenza tra scelte pubbliche “politico-amministrative di ponderazione”, a loro volta distinguibili in “libere” o “previamente selezionate e graduate da norme”, e scelte pubbliche “di valutazione dei fatti complessi”;

– quella della pervasività del principio europeo di integrazione in tutte le scelte pubbliche degli Stati (tanto delle rappresentanze democratiche quanto dei giudici);

– infine quella della indifferibilità della transizione ecologica come scelta pubblica cristallizzata dall’ordinamento e assurta a parametro degli interessi in gioco.

In ordine al primo profilo, il giudice spiega che le scelte pubbliche “politico-amministrative di ponderazione” sono contraddistinte dal bilanciamento di interessi, pubblici e privati, «non previamente selezionati e graduati dalle norme», sicché il sindacato giurisdizionale deve essere incentrato solo sulla loro ragionevolezza e proporzionalità, a meno che non esistano previsioni normative che dispongano una determinata gradazione a monte degli interessi in gioco (com’è, ora, la transizione ecologica) o una specifica collocazione assiologica dei diritti (come appunto indicato – sempre secondo il Giudice di Palazzo Spada – dal riformato art. 41 Cost.). Accanto ad esse, si collocano le scelte pubbliche contenenti “valutazioni dei fatti complessi”, le quali non si limitano al bilanciamento ma richiedono prioritariamente particolari competenze tecnico-scientifiche, da utilizzare, da parte del decisore, «al lume del diverso e più severo parametro della (loro) ‘attendibilità’ tecnico-scientifica». Il “fatto complesso”, a sua volta, può essere preso in considerazione dalla norma attributiva del potere in due modi: nella dimensione oggettiva “storica” (qualcosa che è già accaduto nella realtà e non è più evitabile attraverso le scelte valutative); oppure in quella “mediata” «dalla valutazione casistica e concreta delegata all’Amministrazione» (qualcosa che è in corso nella realtà, su cui scegliere valutando gli elementi di quella realtà da considerare o meno per i loro effetti).

Riassumendo, il prisma delle scelte pubbliche si articolerebbe in queste intersezioni e nelle loro reciproche combinazioni. Al suo interno, si dovrebbe muovere qualsiasi giudice.

Cionondimeno, la vigenza del principio europeo di integrazione, secondo cui «le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile», arricchisce lo scenario con un fattore aggiuntivo e trasversale (sul principio di integrazione, si v. di recente R. Ferrara, La tutela dell’ambiente e il principio di integrazione: tra mito e realtà). Questo comporta che qualsiasi scelta pubblica diventi comunque “ambientale”, ridimensionando, a tutti gli effetti, non solo la valenza del concetto di “materia ambientale”, ma soprattutto la separazione contenutistica dei due tipi generali di scelta pubblica a favore della “valutazione dei fatti complessi”, la quale, a questo punto, dovrà precedere, in ossequio all’integrazione delle esigenze ambientali, la considerazione della “ponderazione”.

Scrive, infatti, il Consiglio di Stato che «le esigenze di tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre pertinenti politiche pubbliche, in particolare al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile». Ne deriva che, sul piano delle definizioni delle politiche, il modello delle «tutele parallele» si rivela inadeguato, in quanto fondato sulla separazione degli interessi e delle materie e quindi conflittuale invece che sistemico, mentre, sul piano della loro attuazione, quello della ponderazione diventa subordinato alla «direttiva di metodo» (dell’integrazione); metodo – puntualizzano i Giudici – che non può non essere supportato, essendo l’ambiente un “fatto complesso”, dalle conoscenze tecnico-scientifiche.

Ecco allora che qualsiasi giudice non solo “deduce” sillogisticamente dalla norma la conformità della scelta pubblica, ma ne “valuta” pure l’adeguatezza di contenuto proprio sul piano della sua “integrazione” con le esigenze di tutela dell’ambiente, verificando se la scelta, oggetto di giudizio, «rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto».

L’apporto scientifico assurge, in sostanza, a elemento determinante dei contenuti di qualsiasi scelta pubblica e del sindacato del giudice.

Questo non significa giudicare il potere pubblico in base alla scienza o infrangere la sua legittimazione democratica in nome della scienza. Sempre i Giudici di Palazzo Spada osservano che il compito di attivare questo sindacato giurisdizionale di adeguatezza spetta pur sempre al cittadino, il quale ha l’onere di «contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso» (del decisore), mettendone «seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica» attraverso appunto evidenze scientifiche. «Se questo onere non viene assolto – si legge nella sentenza – e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato»: e non certo per garantire «un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo)», ma per dar seguito, sul piano del processo, alla scelta pubblica non altrimenti contestata appunto nella sua “attendibilità”.

Se invece l’onere viene assolto, esso dovrà essere verificato dal giudice su due fronti: nella sua idoneità al miglior raggiungimento degli obiettivi normativamente prefissati di indifferibilità della transizione ecologica, «la quale comporta la trasformazione del sistema produttivo in un modello più sostenibile che renda meno dannosi per l’ambiente la produzione di energia, la produzione industriale e, in generale, lo stile di vita delle persone»; nel minor sacrificio degli interessi coinvolti considerando la nuova collocazione assiologica dei diritti, disposta dalla riformata Costituzione.

Sembra, insomma, che, nell’era della transizione ecologica, si stia profilando una nuova triangolazione tra scelte pubbliche, ruolo dei cittadini e poteri dei giudici, così rappresentabile per ogni lato:

– da una parte, le scelte pubbliche devono risultare “attendibili” e non solo bilanciate, in quanto scelte comunque ambientali di transizione ecologica, in virtù del principio di integrazione;

– dall’altra, spetta comunque ai cittadini contestare quelle scelte attraverso la prova scientifica della loro inadeguatezza (“non attendibilità”), senza con questo mettere a repentaglio il principio democratico;

– sull’ultimo lato, i giudici possono esercitare un sindacato di adeguatezza, e non solo di conformità, delle scelte pubbliche, verificando comunque che le contestazioni cittadine siano scientificamente “più attendibili” di quelle del potere nel garantire l’indifferibilità della transizione ecologica e nel rispettare le nuove composizioni assiologiche della Costituzione.

Concludendo, si potrebbe dire che la transizione ecologica, proprio perché indifferibile, chiama tutti – poteri democraticamente legittimati, giudici e cittadini – al dovere di agire per la “migliore attendibilità” delle scelte (ormai tutte ambientali): una prospettiva di responsabilizzazione collettiva, di cui avremmo tutti bisogno.

 

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