Le elezioni amministrative in Sicilia: tre questioni

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di Salvatore Curreri

È sempre opportuno, anzi necessario, per uno studioso di sistemi elettorali verificare in che modo gli attori politici interpretano ed applicano tali regole, a maggior ragione dalle nostre parti dove il machiavellico genio italico riesce sempre a stupire, inventando soluzioni talora di gran lunga più fantasiose ed azzardate di quelle che accademicamente si potrebbero ipotizzare.

Per questo motivo – sia detto per inciso e ormai “a babbo morto” – ha pienamente ragione Stefano Ceccanti quando, a proposito delle varianti che si sarebbero volute introdurre alla legge elettorale tedesca, in questo sito metteva in evidenza la differenza culturale che ci separa da quel sistema, e che fa sì che in Germania nessuno si sognerebbe di mettere in atto quegli stratagemmi, come le desistenze e le liste civetta, che invece furono attuati ai tempi del Mattarellum per “proporzionalizzare” i collegi uninominali e rendere maggioritari gli esiti del voto proporzionale alla Camera. Siamo italiani, non tedeschi: ricordiamocelo.

Ebbene, dall’analisi di quanto accaduto in Sicilia nelle elezioni amministrative sono emersi tre problemi espressione del modo “disinvolto” con cui le regole elettorali possono essere applicate e piegate ai propri interessi e che per questo ritengo opportuno brevemente sottoporre alla comune riflessione.

  1. Primo problema: la proliferazione di liste civiche locali.

Qui il dato siciliano coincide con quello nazionale dove, secondo i giornali, ben il 75% delle liste sono civiche. I partiti politici nazionali, foss’anche con i loro simboli, sono pressoché spariti o perché, magari per puro calcolo di marketing elettorale, celati dietro tali liste oppure addirittura apertamente osteggiati, come nel caso di Orlando a Palermo che ha posto al Pd come condizione ostativa all’appoggio della sua candidatura il ritiro del simbolo. Non solo sono scomparsi i partiti nazionali, ennesimo evidente sintomo della loro crisi, ma si sono moltiplicate le liste civiche locali a sostegno di un singolo candidato sindaco. Lo scopo è evidente: aumentare il numero dei candidati di lista così da aumentare i voti al candidato sindaco collegato, grazie all’effetto trascinamento.

Altrettanto evidente l’effetto: le liste civiche locali sono meri contenitori elettorali a servizio del candidato sindaco, privi di qualunque spessore programmatico, in cui ci si candida solo per ricevere il voto di parenti e amici. Insomma, una lista civica vale l’altra, al di là delle loro suggestive denominazioni. Ma se così è, mi chiedo, ha ancora senso la ripartizione dei seggi in consiglio comunale in base ai voti di lista? Se l’elettore, ripeto a livello locale, non vota più la lista, sulla base di un orientamento “ideologico”, ma vota la persona, perché non eleggere direttamente i candidati consiglieri comunali più votati, anche se inseriti in liste che hanno ottenuto una percentuale di voti inferiore ad altre?

        2.  Secondo problema: la disciplina sulla incandidabilità dei candidati a sindaco.

Com’è noto, l’art. 10 del d.lgs. 235/2012 (c.d. decreto Severino) prevede i casi in cui non ci possa candidare alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali. A tal fine il successivo art. 12 prevede che il candidato debba semplicemente autocertificare, tramite dichiarazione sostitutiva, l’insussistenza delle condizioni d’incandidabilità (comma 1), fermo restando che la commissione elettorale preposta all’esame delle liste di candidati debba accertare, oltreché la presentazione di tale dichiarazione, anche la sussistenza delle condizioni di incandidabilità in base agli “atti o documenti” in suo possesso (comma 2). Pertanto, né il candidato sindaco deve produrre una documentazione (ad esempio l’estratto del casellario giudiziale) che attesti l’insussistenza di una condizione d’incandidabilità, né la commissione elettorale ha poteri d’ufficio in tal senso. Di conseguenza, può ben accadere che, in presenza di una autocertificazione falsa e in assenza di poteri di verifica da parte dell’ufficio elettorale, possa candidarsi, essere ammesso al secondo turno di ballottaggio ed essere financo eletto sindaco un candidato incandidabile.

L’obiezione per cui una simile evenienza sarebbe da escludere in quanto sarebbero gli altri candidati o comunque i cittadini a sottoporre alla commissione elettorale gli atti e documenti attestanti la condizione di incandidabilità del candidato sindaco incandidabile non tiene in conto del fatto che:

a) i cittadini possono non avere notizia di simili condanne, né in ogni caso possono avere accesso al casellario giudiziario;

b) gli altri candidati potrebbero non avere interesse a che, al momento delle candidatura, il loro avversario ritenuto incandidabile venga dichiarato tale per motivi prettamente politici (ad esempio perché si tratta di un candidato che non incide sul proprio bacino elettorale, ma anzi indebolisce quello altrui).

È vero che, come prescritto al successivo quarto comma sempre dell’art. 12, la condizione di incandidabilità può essere “rilevata” successivamente alle operazioni di ammissione delle candidature, con conseguente mancata proclamazione del candidato sindaco incandidabile da parte dell’ufficio (e non più commissione) elettorale. Ma anche in questo caso sembra che tale ufficio elettorale possa attivarsi solo dietro eventuali segnalazioni esterne e, comunque, non sia tenuto ad imporre al candidato sindaco incandidabile la presentazione di alcuna idonea certificazione attestante l’assenza di tali condizioni. Né una diversa conclusione pare possa trarsi dal precedente art. 10.3 secondo cui “l’eventuale elezione o nomina di coloro che si trovano nelle condizioni di cui al comma 1 [cioè d’incandidabilità] è nulla. L’organo che ha provveduto alla nomina o alla convalida dell’elezione è tenuto a revocare il relativo provvedimento non appena venuto a conoscenza dell’esistenza delle condizioni stesse”.

Piuttosto l’unica possibilità che, in assenza di segnalazioni o di accertamenti d’ufficio, il candidato sindaco incandidabile venga proclamato eletto sta nell’obbligo del pubblico ministero di comunicare immediatamente le sentenze definitive di condanna emesse nei confronti, tra l’altro, dei sindaci, al prefetto territorialmente competente e all’organo consiliare “ai fini della dichiarazione di decadenza” (art. 10.4 d.lgs. 235/2012); includendo nelle sentenze definitive di condanna non solo quelle intervenute dopo l’assunzione della carica, ma anche quelle precedenti, non rilevate.

In conclusione, il decreto Severino sembra afflitto da due errori: a) l’aver lasciato all’iniziativa discrezionale delle parti, e non all’azione d’ufficio dell’ufficio elettorale, la denuncia delle condizioni di incandidabilità al momento della presentazione della candidatura; b) l’aver omesso qualsiasi disciplina allorquando tali condizioni emergano tra il primo e il secondo turno di ballottaggio per l’elezione del sindaco.

 

3.  Terzo problema: il collegamento di liste tra il primo e il secondo turno.

Com’è noto, le liste collegate al sindaco eletto ottengono, come premio di maggioranza, il 60% dei seggi, mentre alle altre liste va il restante 40%. Tale premio di maggioranza però non scatta se le liste NON collegate al Sindaco eletto hanno ottenuto più del 50% dei voti validi. Sacrosanto: il Sindaco non può avere la maggioranza in consiglio comunale se una lista o coalizione di liste avversarie l’hanno già ottenuta. Mentre però la legge elettorale nazionale, correttamente, prevede che la lista o la coalizione di liste avversarie al Sindaco eletto debbano ottenere più del 50% AL PRIMO TURNO (art. 73.10 TUEL), la legge elettorale siciliana – ché noi siamo speciali, non si dimentichi – non fa riferimento al primo turno, sicché il 50% può essere superato da un gruppo di liste coalizzatesi tra il primo ed il secondo turno (art. 4.6 legge regionale n. 35/1997).  Il che significa, quindi, che tra il primo ed il secondo turno le liste possono decidere di coalizzarsi e di fatto così determinare la composizione del consiglio comunale perché:

  1. se collegate al Sindaco eletto otterranno il 60% dei seggi;
  2. se, sfortunamente, non saranno collegate al Sindaco eletto, comunque otterranno più del 50% dei seggi e, soprattutto, impediranno a tale Sindaco di avere la maggioranza in consiglio.

In ogni caso, quindi, da tale alleanza trarrebbero profitto (win-win).

Questo significa, di fatto, che il voto degli elettori siciliani potrebbe contare molto poco o nulla. Mai come in questo caso si potrebbe richiamare la famosa immagine di Duverger, secondo cui gli elettori distribuiscono le carte ai signori delle liste (non li chiamo partiti, alla luce del punto 1) i quali poi decideranno come giocarle, alleandosi o no tra loro, così da determinare la composizione del consiglio comunale alle spalle degli elettori. Tanto tempo fa Rousseau scriveva: “Il popolo inglese crede di essere libero, ma si sbaglia di grosso; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, esso torna schiavo, non è più niente”. Ecco, in Sicilia – anche per queste assurde regole elettorali – non siamo liberi nemmeno il giorno del voto.

 

 

 

 

 

 

 

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