di Giorgio Trivi
Chi è l’oriundo italiano? Un profittatore che infesta, con le sue richieste di acquisto della cittadinanza, consolati, uffici e tribunali a danno della notoria efficienza e speditezza burocratica nazionale? Un nostalgico delle sue origini, disposto a spendere per viaggiare periodicamente in Italia alla ricerca dei nomi dei paesini di partenza dei suoi avi, da cui magari è derivato il proprio cognome (come successe di frequente nelle confusioni delle anagrafi di sbarco a Santos, in Brasile)? Un’identità di lingua e cultura che periodicamente festeggia nella terra di accoglienza i propri legami di origine, con canzoni, musica, balli, cibo, buon vino (come testimoniano le bellissime feste italiane in tante città del mondo)? E, dal punto di vista giuridico, com’è qualificabile l’oriundo?
È sorprendente che, dopo decenni di indifferenza per i propri discendenti sparsi per il pianeta (basti pensare al trattamento riservato dalle nostre istituzioni alle Scuole all’estero della Società Dante Alighieri e agli Istituti di cultura italiana), adesso il tema degli oriundi sia al centro delle attenzioni, e stigmatizzazioni, della politica e persino dei giudici.
Per la politica, basta leggere la relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto legge 36/2025, per avere la risposta agli interrogativi di apertura: l’oriundo, per l’attuale legislatore, è colui che ha addirittura ha prodotto un “caso straordinario” di “necessità e urgenza” ai sensi dell’art. 77 della Costituzione, avendo provocato – si legge – «un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari». Ecco, allora, la pronta reazione del legislatore italiano: l’oriundo è diventato un urgente problema per la burocrazia. Di conseguenza, l’oriundo va ridimensionato nel formulare domande, altrimenti l’altrimenti efficiente macchina statale italiana si inceppa.
Per la giurisprudenza, invece, basta leggere le ordinanze dei diversi Tribunali ordinari, nelle Sezioni specializzate in materia di immigrazione, sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge sulla cittadinanza italiana (la n. 91 del 1992), nella parte relativa al criterio di acquisto iure sanguinis. Qui le risposte alla domanda “chi sia l’oriundo” sono, in ordine cronologico, tre.
– Per il Tribunale di Bologna, il primo a rimettere la questione alla Corte costituzionale, l’oriundo deve “meritarsi” in qualche modo la cittadinanza, prima di chiederla iure sanguinis. Il giudice a quo confessa di non saper bene quale potrebbe essere questo “merito”, sicché si rivolge alla Corte per auspicare una sentenza additiva, magari che accolga qualche “suggerimento” (il giudice utilizza proprio il verbo “suggerire”) proveniente dalla dottrina. In ogni caso, però, il giudice a quo esplicita un suo granitico convincimento: l’oriundo non può appartenere all’identità di “popolo” di cui all’art. 1 della Costituzione. Per tale motivo, la questione di legittimità lamenta la violazione, per l’appunto, dell’art. 1 Cost., addirittura nella sua interezza (ossia per contrasto col primo e col secondo comma).
– Per il Tribunale di Campobasso, invece, non si pone alcun problema di illegittimità costituzionale dell’oriundo, sicché la rimessione alla Corte è stata negata per due ragioni: perché il criterio dello ius sanguinis registra un fatto naturale di discendenza; sicché, ed è la seconda ragione, non spetta al giudice metterlo in discussione (trattandosi precisamente di un fatto), ma al massimo al legislatore, che sui fatti ovviamente può intervenire per qualificarli e consequenzialmente disciplinarli.
– Per il Tribunale di Firenze, infine, il problema di legittimità costituzionale si pone, tanto da aver rimesso anch’esso la questione alla Consulta, ma sulla base di una motivazione in parte differente da quella dei colleghi di Bologna: per il problema dell’assenza del radicamento sul territorio quale ratio del riconoscimento della cittadinanza in quanto diritto politico. In un parola, l’oriundo, non vivendo stabilmente in Italia, non potrebbe aspirare alla cittadinanza, perché non stanziato da qualche parte. Per tale motivo, il petitum costituzionale formulato non è a contenuto additivo, ma generale: di non manifesta infondatezza della questione dell’art. 1 della legge sulla cittadinanza «in riferimento» – si legge – agli artt. 1, 3 e 117 Cost., quest’ultimo «in relazione agli obblighi internazionali (genericamente evocati) e agli artt. 9 TUE e 20 TFUE». In questo modo, però, sembrerebbe essere messo totalmente in discussione il criterio in sé dello ius sanguinis riferito all’oriundo. Alla fine, a prendere alla lettera il giudicante fiorentino, l’oriundo non potrebbe mai aspirare alla cittadinanza, se non … trasferendosi in Italia.
È difficile negare che non ci sia confusione su questo tema degli oriundi. Tra l’altro, un ulteriore dato che contribuisce al disorientamento riguarda l’art. 35, quarto comma, della Costituzione, dove la “emigrazione” è qualificata “libertà” e, in quanto tale, “riconosciuta” dalla Repubblica. Né il legislatore né i giudici a quibus si cimentano con questo dettato costituzionale, che non è da poco, riguardando una libertà.
Invero, il Tribunale di Firenze lo richiama, ma in modo totalmente apodittico: per dire che esiste l’art. 35, ma non si applica alla cittadinanza. Suona un poco beffardo, dato che gli oriundi sono i discendenti della emigrazione (cittadina) riconosciuta da quella disposizione costituzionale come “libertà” (che notoriamente libertà non fu).
Ma, allora, chi sono gli oriundi? A questo punto, allo stato dei riscontri citati, le risposte sono tre.
La prima è questa: l’oriundo è un problema “contingente” da risolvere come “caso straordinario” con decreto legge. È espressamente rappresentata dell’attuale legislatore. Invero, com’è noto, questa visione contingente è insorta non a causa dell’«eccezionale e incontrollato afflusso» di istanze di cittadinanza. Lo smentiscono i dati stessi messi a disposizione dalla relazione. Del resto, se così onestamente fosse stato, la “necessità e urgenza” si sarebbe tradotta, per coerenza logica, in un intervento sul procedimento e non sui soggetti richiedenti. Un problema urgente di istanze burocratiche non si affronta eliminando gli istanti. In realtà, per l’attuale legislatore, il problema degli oriundi è improvvisamente balzato alla sua attenzione, a seguito del disegno di legge sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio e la conseguente questione, evidentemente sottovalutata, del voto degli italiani all’estero e del loro peso nell’esito finale dello scrutinio. Lo ha spiegato molto bene, in queste pagine, il Prof. Curreri (Gli italiani residenti all’estero sono cittadini di serie B?): come limitare, nel più breve tempo possibile e d’ora in poi, il voto degli italiani all’estero ovvero degli oriundi con cittadinanza? Ecco la risposta più rapida: dichiarando la “necessità e urgenza” per la limitazione drastica del loro accesso alla cittadinanza “a causa” dell’«eccezionale e incontrollato afflusso». Non per nulla, l’Avvocatura dello Stato perora, nei contenziosi pendenti a partire da quello di Firenze, addirittura l’applicazione retroattiva del decreto legge in nome sempre dell’afflusso incontrollato. Quanto sia costituzionale questo agire, oltre che decente per gli oriundi che comunque sono persone prima che protocolli in arrivo negli uffici, spetta dirlo alla Corte costituzionale.
La seconda risposta è quella dei Tribunali di Bologna e Firenze: l’oriundo è una questione “politica”, in termini o di appartenenza al popolo sovrano (tesi bolognese che “suggerirebbe” l’addizione di un qualche criterio di “meritevolezza”) o di stanzialità territoriale (tesi fiorentina che addirittura sembrerebbe reputare incostituzionale lo ius sanguinis in sé e per sé). Invero, la proposta “politica” appare contraddittoria. Basterebbe porsi due domande, per comprenderlo. Sulla base di quale “meritevolezza” votano gli italiani all’estero nelle modalità consentite dalla legge che disciplina il loro diritto politico? Se davvero il problema è la “meritevolezza” degli oriundi, allora si dovrebbe intervenire non solo sulla legge per la cittadinanza, ma anche su quella per il voto all’estero, omogeneizzando i criteri di “meritevolezza”, altrimenti si attiverebbero discriminazioni su condizioni personali di tempo (oriundi aspiranti cittadini, prima indipendentemente se “meritevoli” e dopo solo se “meritevoli”) e stato (votanti prima non necessariamente “meritevoli” e poi, invece, si), difficilmente accettabili rispetto agli artt. 2 e 3 della Costituzione. Inoltre, se davvero il problema degli oriundi è la stanzialità territoriale, allora perché è stato consentito il voto degli italiani all’estero, i quali evidentemente stanziali non sono? Anche da questo angolo di visuale, il problema costituzionale della “territorialità” dovrebbe transitare dalla sola legge sulla cittadinanza alla legge sul voto all’estero. In una parola: se si può votare, per l’Italia, all’estero, allora si può essere cittadini, per l’Itala, all’estero; anche perché dovere del cittadino è quello di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (Art. 4, comma 2, Cost.). Perché mai la “propria scelta” dovrebbe essere autoritativamente limitata al territorio?
La terza risposta è quella del Tribunale di Campobasso: l’oriundo è un fatto “naturale” considerato che naturale è la discendenza di sangue, sicché o si disciplina, con legge, il fatto oppure non si può fare nulla, perché non spetta al giudice mettere in discussione fatti, ma solo interpretate (e dubitare di) norme. Pare la risposta meno azzardata delle precedenti. Anch’essa, tuttavia, sollecita domande: come si può disciplinare con legge un fatto di sangue? Se il legame di sangue è una condizione naturale, come può (e fino a che punto) essere tradotta in situazione normativa?
Queste ultime considerazioni non sembrano di poco peso. Rimontano, come noto, non solo alla famosa “legge di Hume” e alla sua applicazione nel campo del diritto (e su questo ci sono stati i contributi di grandi Maestri del diritto: da Gaetano Carcaterra, con le sue lezioni Principi di giustizia e fondamento del diritto, a Bruno Celano, col suo Saggio sulla legge di Hume), ma anche alla qualificazione costituzionale del legame con lo Stato, di cui non si possono dimenticare gli abusi sul tema, consumati nel passato, in nome proprio di esigenze conclamate “necessarie e urgenti”: dalla famigerata Grandfathering Clause negli Stati Uniti e alle connesse c.d. “leggi Jim Crow”, che pretendevano di disciplinare la “meritevolezza” dei singoli individui (soprattutto afrodiscendenti) in funzione dell’ “urgenza” di disciplinare imminenti scadenze di voto, alla teorica tedesca del “Blut und Boden”, che giustificava la stanzialità, a fini anche politici, in nome della “necessità” di garantire la produzione agricola in Germania, sino alla legislazione italiana fascista, oscillante tra miti di cittadinanza “imperiale” ed esigenze di controllo politico del dissenso (si v. l’interessante ricostruzione delle edizioni enciclopediche italiane sul lemma “cittadinanza”, in A. Prampolini, Il concetto di cittadinanza dal Fascismo a oggi. Le edizioni dell’Enciclopedia Treccani come fonte storica).
Ecco allora che disquisire di ius sanguinis riguardo agli oriundi richiederebbe approfondimento storico e semantico, invece che apodittiche prese di posizione. Tra l’altro, lo ha fatto presente la Corte costituzionale in una sentenza (l’unica) dedicata appositamente agli oriundi: la n. 15 del 1960. In essa letteralmente si spiega che oriundo è la «persona nata in un determinato territorio o nata da famiglia residente in quel territorio», il cui fatto di nascita e discendenza «costituisce una condizione personale che non può essere presa a base per una distinzione tra cittadini e cittadini», dato che «il fatto della nascita in un luogo piuttosto che in un altro o in una famiglia piuttosto che in un’altra costituisce una condizione personale e non una situazione personale», per cui «l’apprezzamento discrezionale che il legislatore compie per enucleare le situazioni che richiedono particolare disciplina e per determinare la sfera e le modalità della disciplina stessa, non può toccare l’ambito segnato dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione e non può trascendere dai giusti limiti derivanti dal principio di uguaglianza».
Questa sentenza si presenta come la risposta più sensata alle nostre domande iniziali. L’oriundo non è un “problema urgente” (come vuole il legislatore attuale), né un problema “politico” di identificazione col popolo o di stanzialità sul territorio (come superficialmente argomentato dai giudici a quibus di Bologna e Firenze), né un mero fatto “naturale” di sangue (come presupposto dal Tribunale di Campobasso). L’oriundo è, prima di tutto, una persona umana, non un fatto qualsiasi da sussumere a comando giuridico secondo la “legge di Hume” o attraverso finzioni giuridiche, velatamente nostalgiche di remote “Grandfathering Clause”, teorie “Blut und Boden”, mitologiche appartenenze. Questa persona umana, come insegna la Corte nella citata sentenza, vive una “condizione personale” particolare, non una “situazione personale” a disposizione di qualsiasi discrezionalità: una “condizione personale” che, come tale, rientra nell’«ambito segnato dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione». Più chiaro di così, non sembra possibile.
Da qui, allora, si dovrebbe ripartire nell’affrontare anche la lettura dell’art. 35 Cost., invece di ometterla dal panorama dei parametri costituzionali.
Nell'immagine, tre dei più famosi oriundi italiani, i calciatori José Altafini, Antonio Angelillo e Omar Sívori, con la maglia della Nazionale.