di Giacomo Menegus
Giovedì mattina (26 giugno) alcune decine di attivisti di Extinction Rebellion hanno inscenato una protesta in piazza San Marco contro l’ormai onnipresente e inflazionatissimo matrimonio di Bezos.
Sono stati portati via di peso, identificati e, secondo quanto riferisce la stampa, denunciati per “manifestazione non autorizzata”.
Quest’ultima espressione potrebbe sembrare l’ennesima sgrammaticatura giornalistica, se non fosse che, proprio nel caso di Piazza San Marco, i termini utilizzati sono ormai perfettamente appropriati. Costituzionalmente inaccettabili, per carità, ma descrivono bene la prassi delle autorità di pubblica sicurezza adottate in proposito.
Dal 2009, infatti, sulla scorta di un decreto prefettizio adottato a valle della c.d. direttiva Maroni, è vietato, in via preventiva e generale, manifestare in Piazza San Marco (e in molte altre zone della città). Le eccezioni – concesse in più occasioni per concerti ed eventi mondani – seguono d’altronde il modello dell’autorizzazione, dato che è di volta in volta l’autorità di pubblica sicurezza a rimuovere, per il caso specifico e con un’amplissima discrezionalità, il divieto che sarebbe altrimenti generale e preventivo, perché imposto prescindendo del tutto dalla valutazione dei “comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”, come vorrebbe invece la Costituzione (art. 17 Cost.).
Si può ben parlare di “manifestazione non autorizzata” in questo caso; resta ad ogni modo una prassi incostituzionale (spiego qui più diffusamente le ragioni).
Ma torniamo alla vicenda di ieri: si può rimproverare ai “promotori” della protesta di non aver preavvisato una manifestazione che sarebbe stata loro vietata in modo pressoché automatico, peraltro sulla scorta di un divieto palesemente illegittimo? E possono fondatamente adottarsi Daspo nei confronti degli attivisti non residenti, come paventato sulla stampa? Al gentile lettore la risposta (prima ancora che alla magistratura).
L’occasione, ad ogni modo, è propizia per segnalare come diverso tempo fa si sia costituito un comitato di residenti veneziani (Comitato per il ritorno di Piazza San Marco alla città di Venezia) per chiedere che il “cuore” della città fosse restituito agli usi della cittadinanza, incluse le manifestazioni. Il Comitato, dopo aver ricevuto plurimi divieti dalla Questura a svolgere manifestazioni in Piazza, ha fatto ricorso al Tar del Lazio per annullare il decreto prefettizio che le vieta e a monte la direttiva Maroni, quale atto presupposto.
La risposta del TAR? Al momento della decisione (NB: giunta ben 6 anni dopo il preavviso!) non sussisteva più l’interesse al ricorso – che dev’essere concreto e attuale – perché era passato troppo tempo dal divieto opposto dalla Questura a tenere una passeggiata collettiva in Piazza (perché questa, va rimarcato, era la “pericolosa” manifestazione preavvisata).
La vicenda di giovedì mattina conferma come sia del tutto opinabile questo modo formalistico di intendere l’interesse a ricorrere da parte del giudice amministrativo. Il diniego allo svolgimento della riunione da parte delle autorità di p.s. giunge solitamente a ridosso della manifestazione e quindi il più delle volte non c’è il tempo per ricorrere e ottenere tempestivamente giustizia (anche in sede cautelare). Ma questo, di per sé, non toglie l’interesse a vedere riconosciuta l’illegittimità del divieto in capo ai ricorrenti, specie al fine precipuo di scoraggiare l’adozione di divieti analoghi in futuro. Ma nel nostro caso la decisione del Tar è doppiamente discutibile, perché l’ostacolo vero alle manifestazioni in Piazza San Marco non è il diniego puntuale, ma il divieto generale racchiuso nel decreto prefettizio, di cui il primo è una applicazione pressoché necessitata. È dunque il divieto generale e preventivo il vero ostacolo che ha impedito ieri la passeggiata, oggi la protesta di XR e domani chissà quale altra legittima forma di protesta pacifica e senz’armi.
Che sia il caso di ripensare anche l’approccio del giudice amministrativo?