In difesa della magistratura milanese

di Mario Barcellona

Da decenni parlo nei convegni e scrivo nei miei saggi contro la pretesa, che si pensa abbia seguito in una parte della magistratura e che talvolta sembra di leggere negli scritti di taluni suoi autorevoli esponenti e financo nel sottaciuto argomentare di qualche sentenza, che la “coscienza sociale progressiva” legittimi il giudice ad andare oltre la legge e l’interpretazione (evolutiva per quanto si voglia) che il suo testo consente. Vi sarebbe in questa pretesa un’idea fondamentalmente antidemocratica che immagina di mettere il potere giudiziario al posto della politica, la quale idea porta al superamento del sistema dello Stato di diritto e finisce per consegnare la regolazione delle società al potere delle élites e fra esse a quella più forte: il sistema politico e la legislazione che produce (o omette di produrre) possono essere (come oggi spesso sono) inadeguati e (sempre più spesso) deplorevoli, ma si cambiano attraverso la stessa politica e la sua riforma; altrimenti si deve avere il coraggio e l’onesta di dire che la democrazia come sistema di autogoverno della società è divenuta solo una retorica e va ormai dichiaratamente abbandonata.

Ma proprio queste stesse ragioni mi fanno indignare verso quel che si scrive, si legge e si sente sulla vicenda di Milano e verso la strategia di delegittimazione della magistratura milanese da cui sistematicamente scritti e discorsi di questi giorni muovono: quei magistrati pretenderebbero di giudicare un “modello politico”, di usare il diritto penale come arma contro la sacrosante autonomia della politica e le sue insindacabili scelte (che – aggiungono i più timorati – possono magari essere criticate politicamente, ma non possono mai essere criminalizzate).

Che quello milanese costituisca un “modello politico” è fuori discussione: l’operato dell’amministrazione milanese, infatti, non concerne un singolo provvedimento ma risponde ad uno schema generale di comportamento di quella Pubblica amministrazione in materia edilizia, racchiude le linee-guida alle quale questa si attiene (deve attenersi) quando è chiamata a provvedere sulle attività che investono l’uso del territorio

Quel che c’è da capire, allora, è di che modello, in effetti, si tratti.

Esemplare di questo modello è l’utilizzazione sistematica di un procedimento (rappresentato come solo più semplice) in luogo di un altro (che comporta invece – senza che si dica – previe verifiche e preliminari controlli di conformità alla legge e agli strumenti urbanistici). Per lo svolgimento di attività edilizie sul territorio comunale la legge prevede, principalmente, due procedimenti assolutamente diversi, il c.d. permesso di costruire e la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), che, in breve e con molta approssimazione, si possono così definire: il primo costituisce una autorizzazione preventiva all’inizio di lavori che modificano l’assetto edilizio di un terreno (modificando struttura e/o volumetria di un edificio preesistente o costruendone uno nuovo); il secondo, invece, consiste in una semplice comunicazione contestuale con la quale il proprietario di un edificio si limita a segnalare al Comune di star iniziando su di esso opere di manutenzione o ristrutturazioni secondarie (l’allargamento di un’apertura o lo spostamento di una parete) che egli stesso assevera legittime. Il “modello Milano” consiste, appunto, in ciò che si ammette che con una semplice SCIA si possa fare quel che avrebbe richiesto, invece, un permesso di costruire. E quel che così cambia non è poco, è che così facendo si può iniziare a fare quel che non si potrebbe fare senza un previo provvedimento autorizzativo, ossia senza che il progetto immobiliare sottostia alle preliminari verifiche ed ai preventivi controlli di conformità alle normative edilizie ed agli strumenti urbanistici ad opera di un soggetto pubblico deputato alla loro osservanza. E non c’è “interpretazione” che tenga: nessuna acrobazia interpretativa può portare ad accedere con una SCIA, che può riguardare solo riassetti di un immobile che non ne modifichino struttura e volumetria (allargamento di aperture, spostamento di pareti, ecc.), alla costruzione di un grattacielo (il c.d. pirellino). Una cosa del genere ha solo un nome possibile: l’abrogazione della legge che si dice di voler interpretare. E l’esempio vale anche per le altre c.d. prassi interpretative instaurate dal Comune di Milano: molte di esse – sembra di capire – non costituivano interpretazioni ma semplicemente abrogazioni.

Il “modello Milano”, dunque, c’è e consiste, a chiamarlo con il suo vero nome, nell’abrogazione per via amministrativa delle leggi dello Stato e delle normative generali fissate dalla comunità cittadina (Regolamenti edilizi e PRG). Né vale contrapporre a questa palese evidenza che questo si sia fatto perché le leggi erano inadeguate e gli strumenti urbanistici arretrati, che il loro accantonamento costituiva una scelta politica e che la “bontà” di questa scelta sia dimostrata dalla quantità eccezionale di investimenti che ha convogliato sulla città e dal prestigio internazionale che le ha assicurato.  Da che il diritto è diritto, è semplicemente scontato che l’Amministrazione non può sottrarsi all’osservanza delle discipline che ne regolano l’attività e che l’unico modo per star dietro al mutare dei tempi sia quello di cambiare le leggi, i regolamenti e gli strumenti urbanisti. Né muta alcunché che una tale questione sia squisitamente politica. Anzi proprio perché è politica leggi, regolamenti e PRG vanno cambiati nelle forme dovute e con la trasparenza che è loro propria: poiché questo è il modo in cui, ad esempio, ai cittadini è dato di decidere essi stessi – come vogliono le nostre istituzioni – se si debbano allontanare i meno abbienti dal perimetro interno della città e riservarlo ai più abbienti e quanto debba pesare la ricchezza che così si produce. Diversamente lo sviluppo della città è deciso da chi ha le risorse economiche per acquistate un terreno o un vecchio immobile quale che sia il contesto urbanistico in cui si trova e che lo acquista solo perché “sa” di poterne fare quel che gli aggrada

Perciò, il “modello Milano” è un sistema contra legem ed intrinsecamente antidemocratico, perché accantona la legge e abbandona la democrazia e la trasparenza che essa, invece, in qualche modo assicura. Ma è anche un modello intrinsecamente “criminogeno”, perché il toglier via le regole inevitabilmente induce il prevalere di chi può di più, di chi è insediato in quella c.d. economia relazionale dove quel che conta sono le conoscenze ed i favori che vi si scambiano. Che questo sia anche accaduto a Milano è ancora da dimostrare: l’operare contra legem dà luogo ad un agire illegittimo, che non per questo implica, di per sé, la commissione di un reato.

Ma tanto basta per trarne alcune conclusioni.

La prima è che quel che è avvenuto a Milano non è che la manifestazione di un trend ben più ampio, rientra a pieno titolo in quello stesso paradigma di questo tempo che manifesta aperta insofferenza per la democrazia e i limiti ed i controlli che essa implica e vuole che a chi detiene il potere spetti – di dritto o di storto – la libertà di fare quel che vuole: di far strame del diritto internazionale, di licenziare il presidente della Federal Reserve e financo, scendendo giù nella scala del comando, di determinare lo sviluppo di una città nel modo che crede.

La seconda è che c’è da rimanere allibiti a leggere o sentire nei talk-show quegli stessi giornalisti e giuornaliste, che il giorno prima o nel “tavolo” accanto in nome della democrazia tuonavano (giustamente) contro la deriva autoritaria che attraversa l’Occidente e sta inquinando le società nazionali e la geopolitica, spendersi in una critica accesa della magistratura milanese che si sarebbe permessa di processare “l’autonomia della politica”, il suo potere-dovere di perseguire un “modello politico” che “ha orientato su Milano una massa inaudita di investimenti e le ha consegnato la leadership delle capitali europee dello sviluppo”.

La terza è che c’è da rimanere sconcertati a sentire personaggi politici di destra e di sinistra concordare con sussiego su di un garantismo di facciata che viene invocato o disconosciuto a seconda della bisogna: questa volta sono tutti d’accordo senza rinfacci.

La quarta è che entrambe queste inaspettate convergenze avvengono perché il “modello Milano” e la seduzione del potere delle élites che in esso prende corpo sono, ahimè, tendenzialmente trasversali e coinvolgono in larga misura tanto i politici che chi per mestiere li critica, sicché la critica cessa quando tocca questo comune nucleo “prepolitico”, – si direbbe oggi – culturale, antropologico.

La quinta è che le dimissioni di una giunta andrebbero chieste non per gli avvisi di garanzia che la hanno investita, bensì proprio per il “modello politico” che ne ha guidato l’operato, del tutto a prescindere dai reati che eventualmente lo abbiano accompagnato. Ma questo non si può fare, come in questa occasione non si fa, se questo modello è tacitamente sposato dalla gran parte di chi sarebbe chiamato discuterne la bontà apertamente e con sincerità.

Per tutto questo la magistratura milanese va difesa e va detto apertamente che va difesa.

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