di Andrea Guazzarotti
Sono stati i dazi a costruire la potenza degli USA a partire dalla seconda metà del XIX secolo, e non in modo pacifico: è grazie al protezionismo statunitense che, all’inizio del XX secolo e specie tra le due guerre, «il capitalismo manageriale americano contribuì in misura determinante alla distruzione delle strutture di accumulazione del capitalismo di mercato britannico» (Arrighi, 2014, p. 324). Oggi gli USA di Trump ricorrono a quel “glorioso” arnese per tentare di frenare il loro declino, anche se le circostanze presenti sono tali da rendere improbabile una riedizione di quel successo economico (Hudson, 2025). Più che accelerare il crollo dell’impero economico britannico e assumersi il ruolo di egemoni del capitalismo globale al posto del Regno Unito e del gold standard (Arrighi, cit.), gli Stati Uniti di oggi usano i dazi a scopo chiaramente estorsivo (Lucarelli).
Il sistema imperiale statunitense funziona come un adattamento su scala globale del meccanismo del monopolio della forza interno allo stato. Quest’ultimo offre di proteggerci da un pericolo reale, che esso stesso – lo stato – non ha contribuito a creare, a un prezzo inferiore a quello dei suoi concorrenti (che siano i bravi di Don Rodrigo o le milizie volontarie dei comuni medievali, ecc.). E per questo lo stato è apparso, nei secoli, come legittimo protettore (Tilly). Ma quando le minacce da cui pretende difenderci e per cui pretende un prezzo attraverso le tasse sono inesistenti o frutto della sua stessa azione, la sua protezione appare come il pizzo del racket (ibidem).
Su scala globale, gli USA erano stati, specie per l’Europa minacciata dal nazi-fascismo, dei protettori da minacce che essi non avevano creato, offrendo una protezione efficace a prezzi stracciati. Ma, a partire dalla disfatta del Vietnam, quella promessa protezione cominciò ad apparire scarsamente efficace, e, a partire da Reagan, l’offerta di protezione cominciò a convertirsi in estorsione (vedasi l’imposizione della rivalutazione dello Yen giapponese sul dollaro negli accordi del Plaza del 1985). Le minacce esterne erano sempre più creazione dello stesso protettore (gli USA), al pari degli incendi operati dalla mafia contro gli imprenditori che non pagano il pizzo (vedasi la prima guerra del Golfo, per sostenere la quale gli USA estrassero tributi miliardari dai propri satelliti, Giappone in testa, pagando di tasca propria solo il 12%). Ma già con la seconda guerra del Golfo, alla conferenza di Madrid del 2003, risultò chiara la riluttanza dei “protetti” a pagare il tributo, segnando il «drastico declino della capacità degli Stati Uniti di esigere il pagamento per la protezione offerta ai loro satelliti» (Arrighi, 2007, p. 335).
Oggi la minaccia della Cina risulta sempre meno credibile, così come la capacità di estorsione degli USA (ibidem). Tranne in Europa, come l’accordo scozzese sui dazi sembra dimostrare, salvo a voler dare per buona la tesi che sia davvero a causa della Russia di Putin che gli europei si sottomettono ancora all’estorsione USA. Più credibile appare l’ipotesi che le classi dirigenti europee (politiche ed economiche) siano assoggettate al controllo degli USA, per avere trasferito le loro ricchezze nei paradisi fiscali sotto controllo statunitense (NSA), dopo che gli USA avevano costretto la Svizzera a rendersi più trasparente (E. Todd, 2024, p. 190). Dunque, per avere un po’ più di autonomia strategica in Europa, non puntiamo tanto sulla sostituzione della von der Leyen con Mario Draghi, bensì sulla riattivazione del segreto bancario svizzero (ibidem)!
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