di Claudio Stefano Tani
1. Le leggi, diceva ironicamente Anatole France, vietano del pari ai ricchi e ai poveri di pernottare sotto i ponti. L’impersonalità della legge è quindi un’assoluta ambiguità. Il fine della legge non è evitare che ci siano persone che pernottano sotto i ponti, ma punire quelle che sono costrette a farlo. Si creano i poveri per farli diventare colpevoli.
Quando le leggi non proteggono lo Stato dalle persone che le fanno e contro le quali la violenza prevista contro i cittadini comuni per conservare la legge non si esercita, tutto il diritto appare in una luce morale equivoca. Questo è il comportamento più spregevole di un’autorità statale cui è conferito il potere di operare senza restrizioni (Walter Benjamin, nel saggio giovanile Per la critica della violenza, in Angelus Novus –Saggi e Frammenti, Einaudi 2014). La Costituzione italiana per prevenire il pericolo non si è limitata a indicare i fini, ma ha indicato anche i mezzi per attuarli e per difendere lo Stato dalle deviazioni di legislatori sempre più decisi a proteggere il privilegio dei potenti a danno sia degli indifesi, dei quali dovrebbero prendersi cura, che dello Stato stesso.
Il fatto è che di questi tempi è quasi impossibile vedere una chiara differenza, anche etica, tra i fini, veri o conclamati, di partiti politici che non hanno più una cultura sociologica immersa nel contesto sociale; nessuno che si interroghi sulle ragioni della scomparsa della coscienza di classe proletaria, o sul rapporto concreto dei giovani con il lavoro e con il guadagno corrispondente che determina anche l’allontanamento dalla sfera pubblica, un estraniamento dal mondo che forme tradizionali come la famiglia da molto tempo non sono in grado di compensare.
Non si tratta di “questione morale”, ma di “etica pubblica”, di scelte politiche consapevoli, di spietata competizione neoliberista, per stapparsi flussi di denaro sempre più grandi, combattendo la redistribuzione sociale, relegando alla marginalità il lavoro e accelerando il declino definitivo; il tutto confuso in una paccottiglia ideologica insopportabile. Nel loro davvero spregevole cabotaggio, la storia “mattone selvaggio” di Milano, o la farsesca vicenda della cosiddetta “salva Milano”, questo e non altro dimostrano, oltre alla provinciale pretesa di competere nell’attrarre denaro con capitali di ben altro rango come Parigi o Londra; a prescindere da qualsiasi esito delle vicende giudiziarie, che potranno accertare soltanto, ed è avvilente ma non è reato, la tracotanza di pubblici amministratori culturalmente asserviti all’interesse privato, di gente (politici, palazzinari, archistar e notabili vari) che non serve intercettare, dato che in privato dicono le stesse cose che dicono in pubblico. Ma gli eredi sono già al lavoro.
La sociologia da Auguste Comte, Karl Marx, Max Weber, Theodor W. Adorno, Raymond Aron offriva alla politica prospettive in base allo stato reale della società; non erano autorappresentazioni ideologiche, non sacrificavano l’uomo reale agli uomini astratti. In Italia, dal dopo guerra e quantomeno sino agli anni ’80, soltanto per ricordarne pochi, erano ascoltati organismi come il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e l’Associazione italiana di scienze sociali, importanti riviste tra le quali spiccava Quaderni di sociologia diretta da Nicola Abbagnano e Franco Ferrarotti, l’Istituto Luigi Sturzo, l’Istituto Gramsci, figure come Norberto Bobbio e Renato Treves. In altro contesto culturale il Politenico di Elio Vittorini nel primo dopo guerra, ma non ebbe abbastanza tempo, aveva tentato di sbloccare l’immobilismo piccolo borghese della nostra cultura ufficiale. L’abbandono di studi della tensione culturale e dell’apertura di pensiero ad altri mondi, che non soltanto in quelle sedi si proponevano, ha lasciato la politica in un vuoto culturale quasi assoluto; e quelle associazioni libere dell’art. 49 della Costituzione vivono ormai nelle loro capsule autoreferenziali e familistiche, deprivate di ogni minimo pensiero politico.
Da molti anni la sociologia e le scienze sociali sono accusate di provocare, giustificandoli, gli stessi fenomeni che studiano. L’accusa della politica è che voler capire è già giustificare; il che è un alibi molto comodo per legittimare politiche punitive con ricorso al diritto penale, in una fase storica in cui, in tutta l’Europa neoliberista le disuguaglianze aumentano drammaticamente ogni giorno che passa.
La morale equivoca del legislatore, in sostanziale continuità con il sistema e il modus operandi del fascismo, si manifesta nella forzatura del ricorso al diritto penale, al fine di mettere in “condizione di non nuocere” chiunque interferisca nella vita, che si vuole pacifica e indisturbata, dell’ordinamento politico e sociale del regime al potere. Questa morale equivoca è figlia anche del modello culturale che in Italia ha offerto molto a sostegno del moderatismo politico: paura della tirannia unita al disprezzo per le classi inferiori (il volgo irrazionale e sedizioso), culto della libertà ma rifiuto dell’uguaglianza e disprezzo per la democrazia.
La letteratura che tutti i liceali hanno studiato è stata scuola di questo moderatismo. La compassione, accompagnata con elementi appena caricaturali, del cattolicissimo possidente Manzoni per le ansie dei due villici nei Promessi sposi, in un contesto in cui il vero scontro è per la supremazia sociale e l’egemonia sul territorio tra i potenti dei due ordini, nobiltà e clero, mentre il prezzo più alto sarà pagato dal sacrificio della libertà di una donna, la “sventurata” Gertrude (Mario Isnenghi, Storia d’Italia, 2011 Laterza); oppure la fredda anatomia del verismo dei Malavoglia verso un mondo di poveri, “basse sfere” della società, come li definì Verga stesso nella sua prefazione del 1881 (cit. dall’introduzione di Edoardo Sanguineti all’edizione del 1978), che stavano per essere spazzati via dalla storia.
Il giornalismo italiano, espressione ovviamente minore di quel moderatismo, non ha mai abbandonato la propensione di fiduciario al servizio delle potenze sociali e politiche del momento; con variazioni di linguaggio reso, a seconda dei tempi e delle convenienze, soltanto più aperto e violento, o allusivo e prudente; raramente alla ricerca di cronaca autentica, di verità essenziale che “poco o nulla ha a che vedere con la tradizione spesso dissimulatrice del giornalismo italiano” (dalla prefazione di Lucio Villari all’edizione Einaudi del 1993 di Roma 1943, il bel libro di Paolo Monelli).
La garanzia dell’art. 21 della Costituzione non ha liberato il giornalismo italiano da quella tradizione. Per dirla chiara, il vero nemico dell’art.21 non è il censore politico, ma chiunque (giornalista, insegnante, scienziato, medico, filosofo o letterato) studiatamente reprime il proprio pensiero (quando c’è) in vista di un’utilità o per mera ignavia; lo dimostra, tra tanti esempi possibili, il modo con cui il giornalismo, comprendendo i media televisivi, sta proponendo la questione dell’ordine pubblico e del potere della polizia, cui il cosiddetto decreto sicurezza (d.l. 48/2025, convertito con l. 80/2025) introduce le rilevanti novità vagliate nella Relazione (33/2025) dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione.
2. Parlare dei poteri di polizia vuol dire parlare di libertà personale. L’impiego di mezzi violenti per la difesa dell’ordinamento è questione della loro legittimità in relazione alla giustezza dei fini. La giustezza dei fini è il criterio della giustizia, mentre la violenza dei mezzi attiene alla questione della legalità. Accade che si giustificano mezzi violenti come necessari alla giustezza dei fini, il che renderebbe appunto di per sé legittimo l’uso della violenza, o meglio di alcuni mezzi che costituiscono la violenza. La distinzione tra violenza legittima e violenza illegittima, al contrario di quella della giustezza dei fini, non attiene alla questione della giustizia e non è risolvibile come questione di diritto, ma di filosofia della storia e quindi di potere, ossia di riconoscimento dell’autorità e della sottomissione passiva ai fini stabiliti dal potere giuridico. È quindi necessario riflettere sul potere della polizia, un potere non direttamente regolato dalla Costituzione, ma che è il padrone dell’uso della violenza normalizzatrice dello Stato.
Oggetto della tutela costituzionale sono le libertà elencate nelle sue norme (artt. 13, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 33 e 34), non i casi e le modalità che possono spiegare i divieti e le limitazioni al loro esercizio, che sono oggetto delle leggi penali. Non serve qui ricordare che l’essenza di ognuna delle libertà garantite dalla Costituzione, come avrebbe detto Isaiah Berlin, “consiste nella capacità di scegliere come si vuole e perché così si vuole, senza costrizioni o intimidazioni, senza che un sistema immenso ci inghiotta; e nel diritto di resistere, di essere impopolari, di schierarsi per le proprie convinzioni per il solo fatto che sono tue” (Isaiah Berlin, La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano, 2005) e di resistere, contro qualsiasi autorità, quando questa libertà è minacciata.
La polizia è la principale autorità statale cui è conferito il potere di esercitare tutti i controlli di “normalizzazione” e di impiegare mezzi violenti, a prescindere dalla giustezza dei fini e cioè da ogni questione di diritto. La violenza “normalizzatrice” della polizia è una violenza identica ovunque; è un problema di filosofia della storia nel senso di riconoscimento del potere dal quale promana l’autorizzazione all’uso della violenza, che non è il potere giudiziario, ma è il potere politico che è un concetto storico. I rituali della giustizia, quando intervengono per autorizzare l’uso della violenza, servono soltanto per registrare, a livello ufficiale e a livello legale, tutti quei controlli che sono appunto controlli di “normalizzazione” assicurati dalla polizia (Michel Foucault. Sorvegliare e punire, ed. Einaudi 1976). È la giustizia, in un’inversione di ruoli, ad essere al servizio della polizia e della violenza legittima o illegittima da questa esercitata e non il contrario.
L’apparato di polizia è un apparato amministrativo che produce decisioni e ordini, che può essere utilizzato o risparmiato in modo calcolato dal detentore del potere politico e usato per conseguire determinati obiettivi, a sostegno dell’ordinamento costituzionale, o al contrario financo eversivi. Il potere politico si esprime con leggi generali ed astratte, ma si esercita sul singolo individuo in modo mirato e penetrante per vie amministrative. Anche l’amministrazione della polizia, come tutte le altre, crea a tale fine un linguaggio (circolari, direttive, istruzioni, ordini, pareri), un linguaggio giuridico se vogliamo minore, ma che ha almeno altrettanta importanza di quello di filosofi, giuristi o politici raffinati, non fosse altro perché determina, condiziona e sorveglia i comportamenti individuali e collettivi, crea sottomissione del cittadino; un linguaggio che, per qualsiasi apparato amministrativo, è una formidabile risorsa di potere extra legem e che si presta ad essere praticato per conseguire obiettivi politici.
Per perseguire alcuni obiettivi politici repressivi delle libertà costituzionali è essenziale creare un campo d’azione esente dalla responsabilità di cui all’art.28 della Costituzione, che non è una norma inutile o con effetti solo apparenti, ma va interpretata nella sua totalità, per farne emergere il significato precettivo, soprattutto penale, volto a sanzionare i reati di violazione dei “diritti fondamentali” previsti dalla Costituzione commessi dai pubblici dipendenti. Stiamo parlando di diritti “inviolabili dell’uomo”, di atti di “valenza criminale” contro tali diritti.
L’art. 28 non è una norma sulla responsabilità civile; se fosse così non avrebbe alcun significato, o un significato solo apparente; non è nemmeno un semplice rinvio in bianco, perché i diritti violati oggetto della sua previsione sono soltanto i diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (cfr. Fabio Merusi e Marcello Clarich, Rapporti civili, Art.27-28, in Commentario della Costituzione – Branca, Pizzorusso), tra i quali è incluso il diritto delle persone, in qualsiasi circostanza, sottoposte a limitazioni della libertà personale a non subire violenza fisica e morale (art. 13, IV c. Costituzione). Non per caso il decreto sicurezza è visto come il presupposto per metter mano al problema della responsabilità degli agenti per le violenze, fisiche o morali, alle persone sottoposte a restrizione della libertà, il cosiddetto scudo penale; per dirla chiara per mettere mano al crimine di tortura (art. 613 bis c. p.), bloccando i processi in corso: il più noto quello per le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il decreto sicurezza deve quindi essere vagliato, quantomeno in prospettiva, anche nella visuale dell’art. 28, data la valenza criminale della disposizione costituzionale. Non si può ritenere inesistente il dubbio che una prossima stazione della via crucis del decisionismo riformatore della Costituzione potrebbe essere quella di porre mano all’art. 28. Provo a farmi capire.
3. Nel diritto anteriore alla Costituzione gli ufficiali e gli agenti di P.S. erano coperti, quando avessero fatto uso delle armi, dalla prerogativa dell’istituto della “garanzia amministrativa” ereditato dai vecchi ordinamenti, consistente nel condizionare l’azione penale alla previa autorizzazione del ministro della giustizia (art. 16 c.p.p.). Con l’entrata in vigore della Costituzione, che all’art. 28 statuisce la piena responsabilità penale di tutti i funzionari e i dipendenti dello Stato, la prerogativa venne ovviamente eliminata dalla Corte costituzionale (sent. 94/1963). È rimasta la responsabilità della pubblica amministrazione per fatti illeciti commessi nell’esercizio dell’attività di polizia, tant’è che nel 1972 (sent. 2351) le sezioni unite civili della corte di cassazione stabilirono che il mancato accertamento in sede penale di un reato, per esserne rimasto ignoto l’autore, non toglie la responsabilità della pubblica amministrazione se risulta che il danno è dovuto ad agenti di polizia “anche se non indentificati individualmente”.
La questione che si pone è perché lo Stato debba opporsi all’identificazione individuale degli agenti che intervengono in una libera manifestazione, consentendo che l’eventuale responsabile di un reato resti ignoto e rimanendo così la pubblica amministrazione unica responsabile ai fini risarcitori del danno da quegli procurato; per esempio esercitando violenza su singole persone (manifestanti pacifici o persone affidate alla custodia dell’agente).
Non è un problema formale di conformità alla raccomandazione europea (192/2012) già applicata da 19 Stati europei. Gli agenti di polizia non sono razzisti incappucciati o brigatisti con passamontagna, ma sono rappresentanti dello Stato, che anche in occasione di manifestazioni sono preposti alla difesa dello Stato e di tutti i cittadini dalle eventuali violenze altrui. Negare l’identificazione individuale significa negare il loro ruolo, la loro dignità e rispettabilità; tanto più oggi in tempi in cui i mezzi audiovisivi sono in grado di documentare sin nei particolari ogni evoluzione degenerativa di una manifestazione o di un episodio nel suo svolgimento, che imponga l’uso preventivo o reattivo della forza a tutela dell’incolumità pubblica e di quella dell’agente in servizio.
Non si deve equivocare tra responsabilità personale degli ufficiali di polizia preposti al comando e dei singoli agenti e impunità; ne va anche del rispetto che gli stessi agenti devono pretendere da loro stessi e dai cittadini, nonché del diritto di difesa da parte dello Stato dal quale, al contrario, non devono pretendere la copertura dell’anonimato per i reati eventualmente commessi. La responsabilità per reati commessi da agenti di polizia non deve, a nessun effetto, restare a carico soltanto dello Stato per impossibilità di identificazione individuale dei responsabili; lo impone il concetto di identificazione della responsabilità penale con la responsabilità colpevole.
Va da sé a questo punto una riflessione in ordine alla questione sociale più rilevante, ovvero alla disciplina che nel decreto sicurezza ricevono le manifestazioni a difesa del lavoro.
4. Pur aderendo all’opinione secondo cui il lavoro non ha il connotato dell’esclusività rispetto ad altri principi, che vanno sotto i concetti di pari dignità sociale e di uguaglianza (artt. 2 e 3), di libertà religiosa (art. 8), di pensiero, culturale e di ricerca scientifica (artt. 9, 33 e 34), di riunione (art. 17), non si può comunque dubitare che principio democratico, nel quale tutti gli altri sono compresi, e lavoro si sostengono reciprocamente; almeno nella nostra Costituzione uno non sopravvive senza l’altro. È il lavoro, secondo le modalità e forme con cui si esplica, e con cui è difeso (art. 40), che fornisce la base materiale per la realizzazione dei fini di pari dignità sociale e uguaglianza di fatto, non solo di diritto; lo dimostra la mole impressionante di disposizioni costituzionali, tredici oltre quelle citate, nelle quali il lemma lavoro è utilizzato, in ben 23 commi (artt. 4, 35, 36, 37, 38, 39, 43, 46, 51, 52, 99, 117, 120). Dal complesso normativo della Costituzione emerge che il lavoro è il centro della sfera delle libertà, del dialogo e del rapporto sociale, della vita politica, “perché, tra le varie forme dell’agire umano, la Costituzione ha consapevolmente assunto a paradigma, anzitutto, l’arendtiana “attività lavorativa”” (Massimo Luciani, Radici e conseguenze della scelta costituzionale di fondare la Repubblica democratica sul lavoro, in ADL 3/2010, p. 632).
In altre parole, con tutti i suoi connotati sociologici, economici, culturali, di fatica fisica o intellettuale e con tutte le varianti interpretative cattoliche, protestanti, laiche, marxiste, il lavoro quale tratto tipico della condizione umana fissato nell’art.1 è l’asse di rotazione del sistema costituzionale, e la violazione dei diritti che in esso trovano tutela scardina tutto l’equilibrio sul quale vive il sistema, facendo arretrare contenutisticamente e storicamente la Costituzione al livello di qualsiasi altra precedente alla seconda guerra mondiale.
La democrazia repubblicana in Italia è stata conquistata e difesa dal mondo del lavoro alla guida di alleanze di classe e politiche con altri attori sociali; lo dimostrano gli scioperi del 1943 decisivi per la caduta del fascismo, la difesa delle fabbriche, abbandonate dalla proprietà, durante i bombardamenti alleati e l’occupazione tedesca in ritirata, la difesa della democrazia dal 1947 al 1953, l’intervento in campo durante la crisi del 1960, la decisività del contrasto al terrorismo stragista neofascista da Piazza Fontana in poi e ai terrorismi mafioso e brigatista.
La Repubblica italiana è fondata sul lavoro perché ideata, progettata, costruita, consolidata e difesa su questa storia alternativa a quella con cui si era intrecciata la costruzione dello Stato unitario, in cui la mafia non è mai stata un fatto arcaico e spontaneo, limitato al tessuto sociale siciliano, ma un fenomeno cresciuto in seno alla modernità nei primi decenni postunitari, nei vuoti di potere lasciati dalla caduta dei regni preunitari (Francesco Benigno, La mala setta – Alle origini di mafia e camorra – 1859-1878, Einaudi 2015 e il recentissimo di Salvatore Mugno, Nascita della mafia, Navarra 2025)
Oggi, dopo oltre quarant’anni di insistenti prediche in malafede sull’austerità a chi ne ha sempre pagato il prezzo, siamo in piena crisi della questione democratica, effetto e causa della caduta dei doveri inderogabili dell’art.2, che non si sa come, quando e se sarà superata. Il lavoro non è più la cifra politica dominante in Parlamenti ove ogni sua rappresentanza politica è praticamente scomparsa e quindi mancano le voci delle forze sociali in grado di contrastare gli attacchi ai contenuti e alle forme con cui la difesa del diritto al lavoro e del lavoro si esplica. È in tale contesto che, con ostentato disprezzo nei confronti del valore sociale e morale che il lavoro rappresenta, è potuto accadere, senza efficaci reazioni neppure da parte della sinistra socialdemocratica, che la questione della difesa del lavoro si sia trasformata in una questione di ordine pubblico. Il che consente di concludere con un’ultima riflessione sul decreto sicurezza.
5. L’aumento spropositato del numero di reati, contenuto nel cosiddetto decreto sicurezza prescinde totalmente dalla giustezza dei fini, perché non attiene a questioni di diritto, ma serve soltanto ad ampliare e a rendere di per sé stesso legale il potere di intervento immediato della polizia e legale la violenza esercitata, a prescindere financo dalla valutazione della reale esistenza della “necessaria offensività” che qualsiasi manifestazione di protesta o di dissenso deve avere per poter essere ragionevolmente ricondotta a una fattispecie penale.
La parte del decreto dedicata alla criminalizzazione di alcune forme e modalità di protesta collettiva e individuale e di pressione dei lavoratori in occasione di vertenze sindacali (blocco stradale o ferroviario, art.14) e di qualsiasi altra protesta per i diritti connessi al lavoro, è una scelta apertamente classista di prospettiva, che sicuramente sarà sempre più spietata, data la crescente pericolosità della situazione economica e sociale ormai avviata su un piano inclinato; per di più in un contesto internazionale in cui si sta facendo di tutto per andare verso il baratro senza sapere se si riuscirà a fermarsi in tempo. Tutto avviene, infatti, in un’Europa che ricorda quella disgregata della vigilia della grande guerra come descritta da Joseph Roth (Il profeta muto, Adelphi 1978), con una classe politica patriottarda sospesa nel vuoto, di funzionari che navigano sazi tra le rovine.
È praticamente impossibile non vedere che tutta l’Europa sta toccando il fondo di numerose crisi, tutte collegate tra loro: economica, sociale, ambientale, religiosa e ovviamente politica e diplomatica. Da una parte questo genera una pericolosa tendenza al disinteresse e alla passività, al disimpegno civico; ma c’è anche chi resiste e si oppone a questa deriva e manifesta pubblicamente e collettivamente contro questo accecamento delle coscienze.
Nell’ambito di una manifestazione pacifica, quale essa sia (riunione, assemblea pubblica, corteo), sindacale o politica, le finalità per cui si svolge non devono rilevare, perché la Costituzione si limita a chiedere un “vincolo di mezzo”, cioè ad evitare che la manifestazione degeneri in disordine “violento” (violazione dell’ordine pubblico “materiale”). La Costituzione, proprio in forza degli articoli 40, 17 e 21, in quanto funzionali all’espressione collettiva di informazione e di ricerca di solidarietà, è ostile a qualsiasi forma o modalità di repressione di tali forme organizzative di manifestazione. Il problema allora è che anche un blocco stradale in occasione di uno sciopero per il rinnovo di un contratto, contro licenziamenti o chiusure di fabbriche, o altra manifestazione di dissenso (per esempio manifestazioni per la casa, a tutela dell’ambiente, per il diritto alla salute, per il diritto allo studio) potranno essere represse e punite penalmente soltanto se trascendono in minaccia o violenza privata.
La resistenza passiva e ogni altro atto di disobbedienza civile privi di offensività non devono essere criminalizzati e in ogni caso è sempre doveroso il bilanciamento dei diritti e degli interessi in campo; siamo ancora in un sistema (artt. da 41 a 44 della Costituzione) che coniuga i diritti di libertà di impresa e dignità sociale e umana, subordinando la libertà di impresa a fini sociali o di interesse ed utilità generali, ovvero equi rapporti sociali; quell’equità che, tra le altre cose, è il fine di ogni manifestazione a difesa del lavoro e della salute come, per fare un solo esempio, le manifestazioni dei lavoratori dell’ILVA di Taranto.
Il contrasto del decreto sicurezza con la Costituzione è innanzitutto ideologico e culturale, si esprime nelle finalità intimidatorie che persegue, degrada il diritto a manifestare per difendere il posto di lavoro (o alla casa, alla salute e all’ambiente, allo studio) e il superiore interesse sociale connesso. Ancora una volta la legge non è fatta per evitare che ci siano persone costrette a occupare le strade con i propri corpi per difendere il posto di lavoro, ma per punire quelle che sono costrette a farlo. A dimostrazione, come accennato all’inizio, che nella paccottiglia ideologica che ci sommerge il lavoro non è più la categoria decisiva per la politica italiana.
Il tempo che passa purtroppo sta dando conferma di tale regressione. C’è soltanto da restare in attesa dei prossimi passi. Però, insomma, l’aria comincia a mancare un po’ troppo.
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