di Sergio Bartole*
Sono due i percorsi che seguono nei loro ragionamenti gli esponenti della maggioranza di governo per spiegare gli obiettivi della legge di revisione costituzionale intitolata alla separazione delle carriere giudiziarie. Il Ministro Guardasigilli mostra di preferire una narrazione tecnica e, pretendendo di ragionare da giurista liberale, vede nella separazione delle carriere il completamento della riforma del processo penale, la cui paternità attribuisce a Giuliano Vassalli, eroico esponente della Resistenza al fascismo. Ma alle volte lo stesso Ministro, trascinato dal gusto della polemica, preferisce percorrere la diversa e più polemica e meno tecnica via da altri percorsa, ragionando di repressione dell’indebita interferenza delle correnti della magistratura associata nel governo dell’ordine giudiziario.
Questo salto argomentativo non è sempre coerente, giacché non necessariamente la scelta della separazione delle carriere ha qualcosa a che fare con i risultati perseguiti in termini di contenimento dell’influenza delle correnti giudiziarie. In un ordinamento giudiziario che veda distinti i ruoli dei magistrati giudicanti e di quelli requirenti le correnti possono ancora dispiegare influenza se ad esse è concesso di partecipare per il tramite di elezioni alla formazione degli organi di governo giudiziario offrendo i loro candidati al voto del corpo elettorale di riferimento. Più conseguente è quindi l’argomentare di chi indica la via della repressione delle correnti nella sostituzione del sistema elettivo con la diversa modalità del sorteggio per la formazione degli organi di governo giudiziario. Che è in effetti il modello prescelto dal legislatore di revisione costituzionale all’atto di dare forma all’assetto dell’ordine giudiziario dopo l’adozione della separazione delle carriere con la conseguente istituzione di due Consigli superiori, uno per la magistratura giudicante e l’altro per quella requirente.
Si introduce così un sistema di formazione di organi di vertice dello Stato che è del tutto inusitato, giacché preferisce alla consapevole individuazione dei componenti di alcuni di quegli organi la cieca scelta del sorteggio. Si dimentica che l’elezione è sempre stata indicata come una modalità per la corretta e consapevole selezione del personale chiamato a pubbliche funzioni ad opera delle comunità territoriali o meno di riferimento.
Queste non sono soltanto considerazioni di opportunità, ma trovano riscontro nei precetti della costituzione. Il ricorso a modalità elettorali è costante per la scelta dei titolari degli organi cui competono potestà di decisione, dal vertice dei poteri dello Stato agli enti territoriali. Si potrebbe obiettare che questo non è sempre vero: ad esempio cinque giudici costituzionali sono nominati direttamente dal Presidente della Repubblica ed altrettanto vale per cinque senatori a vita; anche per i componenti del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro non si ricorre a modalità elettorali. Ma in tutti e tre questi casi la deroga ai principi prevalenti ha giustificazioni speciali. Nel caso della Corte prevale l’esigenza di garantirne l’indipendenza compensando la derivazione elettiva degli altri dieci giudici: il CNEL ha funzioni soltanto consultive e non partecipa a decisioni di governo; ed infine la nomina dei senatori a vita ha finalità al tempo stesso premiali per gli speciali meriti dei nominati e di arricchimento culturale e di esperienza della camera c.d. alta. Del resto non è bene dimenticare che alle spalle delle nomine presidenziali c’è pur sempre un’elezione dell’organo che vi provvede.
Questa generalizzato ricorso alle modalità elettorali per la designazione dei titolari degli organi chiamati a reggere le relative comunità di riferimento è parte del sistema: per cui le decisioni di indirizzo spettano al popolo cui compete di esercitare la sovranità nei modi e nelle forme volute dalla Costituzione, in forza della scelta fatta dall’Assemblea costituente a favore della forma della Repubblica democratica, scelta espressa sin dal primo articolo della Carta. Rebus sic stantibus sembra inevitabile arrivare alla conclusione che la regola della elettività delle cariche pubbliche costituisce un principio supremo dell’ordinamento costituzionale, cioè è un fattore identitario della nostra Repubblica. Come tale fa parte di quel plesso normativo che, secondo la nota sentenza n, 1146/1988, anche il legislatore costituzionale è chiamato a rispettare, e quindi non è suscettibile di revisione costituzionale, salvo ad abbandonare il presente ordinamento e con scelta rivoluzionaria transitare ad altro e diverso.
Se si parte da questo postulato è quanto meno ragionevole dubitare della conformità a Costituzione della legge di revisione costituzionale che ha per oggetto la separazione delle carriere giudiziarie, giacché essa confligge con un principio supremo dell’ordinamento nella misura in cui sostituisce il sistema della scelta per sorteggio alle modalità elettorali di designazione dei componenti degli organi di governo giudiziario. La giustificazione della necessità di reprimere indebite interferenze delle correnti della magistratura associata – se rientra fra gli obiettivi del legislatore costituzionale – va perseguita con altre e diverse modalità senza arrivare alla radicale introduzione del cieco sorteggio per la formazione degli organi di vertice dell’ordine giudiziario. Alla comunità di riferimento di cui i titolari di quegli organi devono essere espressione va salvaguardata la libertà di scelta che consente la individuazione delle personalità più idonee all’esercizio delle funzioni de quibus. E’ quanto esige il nostro sistema repubblicano che non consente aperture di credito alla mera sorte.
Quali ripercussioni potrebbe avere sulla storia della legge di revisione costituzionale in argomento, l’eventuale pratico riconoscimento del conflitto fra essa e la Costituzione? Certamente alla sua entrata in vigore la legge potrebbe essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale per le vie del giudizio incidentale, forse addirittura secondo le modalità di recente praticate in materia di leggi elettorali. Ma questa via richiederebbe tempo a fronte della convenienza di reagire sollecitamente al vulnus della Costituzione. La legge dovrebbe aver superato sia l’ostacolo del referendum confermativo che quello della promulgazione presidenziale. Mentre a tale ultimo proposito è ragionevole chiedersi se la ricorrenza del ridetto vulnus consentirebbe al Presidente della Repubblica di rinviare la legge al Parlamento, nonostante essa abbia superato la prescritta doppia votazione di approvazione di ambedue le Camere; è altrettanto ragionevole chiedersi se nel sistema esistono congegni atti ad evitare la sottoposizione al voto referendario di un testo ritenuto incostituzionale anche in assenza della prescrizione di un preventivo giudizio della Corte costituzionale sulla ammissibilità nel caso di legge di revisione costituzionale del ricorso alla consultazione popolare.
Le considerazioni finali possono sembrare troppo frettolose: ma tutto il presente contributo è destinato ad aprire un dibattito su un profilo della legge di revisione costituzionale per la separazione delle carriere del personale giudiziario, approfittando dell’ospitalità gentilmente offerta dal blog la cui direzione ringrazio.
* Professore emerito di diritto costituzionale nell’Università di Trieste
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